CITTADINI, Antonio
Nacque a Faenza da Girolamo; le prime notizie documentate su di lui risalgono probabilmente all'anno 1465-66, se è esatta l'indicazione del Sorbelli che segnala nei ruoli dell'università bolognese, per quell'anno, "Antonio da Faenza", professore o lettore di medicina e arti.
Ciò indurrebbe a supporre che anche la sua formazione scolastica abbia avuto luogo nel grande ateneo emiliano, in concordanza, del resto, con il dato fuori discussione della sua origine faentina, testimoniata da numerose fonti. E, inoltre, già il Valgimigli (pp. 199-200) citava un rogito notarile del 21 febbr. 1471, conservato nell'Archivio notarile di Faenza, nel quale è nominato un "Egregius artium et medicine doctor Mag. Antonius q. egregii viri Jeronimi olim ser Citadini cap. S. Salvatoris de faventia", sulla cui identità con il C. non si possono sollevare dubbi. Non si ha però alcuna notizia sicura e documentata sul periodo dei suoi studi e sul carattere della sua formazione, anche se dagli scritti che ci sono pervenuti risulta che il C. ebbe, sicuramente, una buona cultura di medico e filosofo scolastico, conoscitore dei testi di Averroè, di Avicenna, di Aristotele e di alcuni maestri della scolastica duecentesca e trecentesca, non esclusi i maggiori rappresentanti italiani della logica d'ispirazione nominalistica e un medico così celebrato come Ugo Benzi. Né è particolare trascurabile che, come confermano notizie contemporanee e testimonia un suo scritto, egli coltivasse anche qualche interesse di tipo umanistico e letterario che gli meritò una certa fama di discreto poeta ed oratore.
Dopo la solitaria notizia del suo probabile insegnamento bolognese, non si hanno, per alcuni anni, documenti o indicazioni relative alla sua attività magistrale. È certo, come attesta una precisa fonte documentaria citata e riprodotta dal Borsetti (Historia almi Ferrariae Gymnasii, I, p. 95) che, il 18 ottobre 1474, egli era lettore di "physica extraordinaria" nello Studio ferrarese, con uno stipendio di 130 lire. Quattro anni dopo, una procura rilasciata dal C. per la cura dei suoi beni in Faenza conferma che egli continuava ad insegnare a Ferrara, "in studio Medicinae", senza, peraltro, specificare il titolo e la natura del suo incarico (Faenza, Archivio notarile, Notaio Piccinini, XIV, 515).
A questo primo periodo della sua attività ferrarese risalgono due scritti ancora inediti che offrono degli elementi interessanti per chiarire il carattere e le tendenze della cultura filosofica del Cittadini. Il primo, datato di Nardi al 1476, è un commento poltmico della cosidetta Logica parva di Paolo Veneto, conservato nel cod. Vat. Urb. lat. 1381 (e cfr. C. Stornajolo, Codices Urbinati latini, III, Romae 1921, pp. 295 s.) e dedicato a Federico da Montefeltro duca d'Urbino; ed è un testo degno di attenzione non solo per le notizie che ci fornisce sugli studi inglesi del celebre logico patavino, ma, piuttosto, per la serrata discussione delle dottrine dei logici di tradizione "britannica", svolta con una netta impostazione critica, comune, del resto, anche ad altri filosofi di stretta ispirazione "peripatetica" e ben definita in questa frase: "quod si omnia rationis entia esse quae logica perpendit confitendum est, non syllogismos, non propositiones, non conclusiones, sed enuntiabilia, et syllogizabilia, ut sic dixerim, et conclusibilia pertractare concedemus; haec enim omnia rationis entia rite vocitantur" (Antonii Cittadini, Phylosophiae ac medicinae professoris,comentarius in dialectica minora Pauli Veneti; per una valutazione dello scritto, cfr. Garin, Alcuni scritti..., pp. 362 s.; La cultura filosofica..., pp. 306 s.). Il secondo è un corso ferrarese sul De substantia orbis di Averroè, preceduto da una dedicatoria a Sebastiano Badocr, attualmente conservato alla Biblioteca Marucelliana di Firenze, C. CCCXLVI cart. XV (cfr. Kristeller, Iter Italicum, I, p. 110): si tratta di un documento assai illuminante dei metodi didattici e magisteriali del tempo che rivela, peraltro, un'indubbia e approfondita conoscenza del testo averroistico e della problematica che esso presentava. Il C. vi svolge, infatti, una minuta e precisa parafrasi dello scritto averroista, secondo i procedimenti tipici della scuola; ma - come ha sottolineato il Garin (Alcuni scritti..., pp. 360 ss.; La cultura filosofica..., pp. 303-06) - non manca di affrontare anche altri argomenti filosofici di gran peso, come la discussione sull'unicità o pluralità dei mondi e sulla finitezza o infinità dell'universo; e si propone pure di discutere, in un altro scritto, sul rapporto tra Dio e il mondo, con un atteggiamento che rivela la sua sostanziale adesione alle tesi del commentatore. Sicché anche questi documenti degli interessi e dei metodi didattici del C. confermano i tratti tipici della sua figura di professore indubbiamente preparato e aggiornato, ma anche i limiti di una mentalità saldamente attestata sul livello medio della produzione scolastica del tempo.
L'insegnamento ferrarese del C. s'interruppe nel 1482, quando egli passò al più celebre Studio di Pisa. La documentazione raccolta dal Verde (pp. 32 ss.) permette ora di seguire, con sicurezza, le fasi del suo non lungo periodo pisano che dimostrano come al suo insegnamento dovesse arridere un notevole successo. Il 3 luglio 1482 gli ufficiali dello Studio lo "conducevano" per la cattedra ordinaria di filosofia per un anno piùun altro a beneplacito, con il salario di 200 fiorini; e la loro delibera veniva approvata il 21 novembre dello stesso anno. Allascadenza del secondo anno il C. non rinnovò il suo impegno; ma il 9 luglio 1485 era nuovamente "condotto" alla cattedra ordinaria di filosofia o ad un'altra "quam ipsi [offitiales] maluerunt seu theoricam medicinae", per la durata di due anni più uno a beneplacito, con lo stipendio di 260 fiorini. E il forte aumento dello stipendio sembra indicare che la sua presenza nello Studio pisano fosse effettivamente assai desiderata. Anzi, secondo quanto narra il Fabroni (p. 297), nel 1487, alla scadenza del biennio, gli ufficiali cercarono nuovamente di trattenerlo; ma il C. non avrebbe acconsentito, preferendo, probabilmente, nuove offerte da parte dello Studio ferrarese.
Comunque, neppure la documentazione del Verde (che accoglie anche gli estremi di due atti di procura del 7 ag. 1483 e del 10 apr. 1485, la certificazione, in data 28 nov. 1487, rilasciata dal C. al suo procuratore per attestare di aver ricevuto da lui quanto gli era dovuto dallo Studio e un atto relativo ad un suo credito per la prestazione di cure mediche) chiarisce i retroscena di questa vicenda accademica che ebbe, a poca distanza di tempo, una breve appendice. Giacché sembra che il C., appena partito da Pisa, desiderasse di farvi ritorno, forse a condizioni ancora migliori, allorché, nel 1488, si rese vacante la cattedra coperta da Cristoforo Francuccio Aretino, il successore di Bernardo Torni. In questa occasione il maestro faentino fu infatti sicuramente l'ispiratore di alcune lettere di raccomandazione e di elogio per il suo insegnamento che si trovano raccolte nell'Archivio di Stato di Firenze (Studio fiorentino, 10, Lettere dello Studio pisano dal 1487 al 1489, pp. 129, 131) una delle quali, quella dello scolaro Ioannes Franciscus Genarius, fu pubblicata dal Fabroni (p. 299) e un'altra, di Ludovico da Volterra ad Iacopo Salviati, è stata invece recentemente citata dal Garin (A. C. da Faenza e lo Studio pisano, p. 104; La cultura filosofica..., p. 304). Temi comuni di tutte queste lettere, scritte evidentemente per sollecitare il ritorno a Pisa del medico faentino, sono la costante lode della sua grande cultura e l'insistente richiesta che gli sia attribuita la cattedra. E si tratta, del resto, di giudizi che dovevano essere assai diffusi tra gli uomini di cultura del tempo se, come riferisce il Mittarelli, Giovanni Antonio Flaminio lo paragonava ad uno dei "fisici" più illustri del tempo, Mengo Bianchelli, e ne elogiava, insieme, le qualità poetiche e oratorie. Comunque, il C. non si limitò a promuovere queste lettere, bensì si rivolse direttamente a Marsilio Ficino, mirando a muovere in proprio favore la prestigiosa influenza del filosofo "laurenziano". Il 30 apr. 1489, in risposta ad una lettera del faentino, il Ficino gli scriveva, infatti, esortandolo a diventare "accademico", dopo esser stato "Peripateticus miles immo dux"; ed aggiungeva, con queste parole, un diretto accenno alla questione della cattedra pisana: "tentavi pro amico aditurri quem monueras: id efficiam, causam non deserem" (Opera, Basileae 1576, I, p. 909). La risposta davvero poco impegnativa del grande platonico non disarmò il C. che dové, anzi, inviare subito a Marsilio una propria riduzione degli Aforismi d'Ippocrate in distici latini, quasi a confermare, insieme, la sua scienza di medico e la sua perizia di poeta (e si noti, a proposito, che il Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 110, 379, segnala altri componimenti poetici del C., conservati a Firenze, Bibl. Laurenziana, S. Marco, 482, pp. 153v-154r e a Modena, Bibl. Estense, Lat. 174 [Alpha O.6. 15]). Di un simile omaggio che doveva contenere anche la richiesta affinché il Ficino si adoperasse per trovare un mecenate disposto ad accollarsi le spese per la pubblicazione dei versi, troviamo una precisa indicazione in un'altra epistola del Ficino, datata al 15 agosto dello stesso anno (Opera, cit., I, p. 900). Con cautela ed espressioni abbastanza evasive, egli rispondeva deplorando, prima di tutto, il lungo ritardo con cui gli erano giunte la lettera e l'operetta che, spedite sotto una cattiva costellazione, avevano impiegato quattro mesi per giungere da Ferrara a Firenze; elogiava l'idea di ridurre in versi latini gli Aforismi ippocratei; assicurava che li avrebbe letti con il massimo interesse. Aggiungeva però che non sarebbe stato facile trovare l'auspicato mecenate; e, alludendo forse a Lorenzo il Magnifico, diceva di conoscerne uno solo al quale avrebbe fatto aver subito l'opera del C., facendosene solerte "patrono". Nella lettera non si trovano, peraltro, riferimenti relativi alla discussa condotta pisana né a suoi ulteriori interventi in favore del "Peripateticus miles". Anzi, il nome del C. scompare dall'epistolario del Ficino, senza che vi sia alcuna traccia di un ulteriore rapporto tra i due filosofi. Ci è però pervenuta la versione del C. che, considerata a lungo perduta, è stata invece identificata dal Garin (La cultura filosofica..., p. 309) con un testo conservato a Firenze, Bibl. Laurenziana, Biscioni 24 (cfr. A. M. Bandini, Catalogus codicum Latinorum..., suppl., II, pp. 255 s.). È questo, appunto, una raccolta di aforismi ippocratei sino al n. 85, volti in distici latini; e, come osserva il Garin, "par difficile che un altro medico sul cadere del '400 perdesse così il suo tempo, inviando a Firenze Ippocrate ridotto in elegie latine".
Il C., caduto il progetto di tornare a Pisa, rimase a Ferrara, ove forse già si trovava quando, eletto anziano aggiunto nel secondo bimestre del 1489, non poté prestare il prescritto giuramento, perché assente da Faenza (cfr. Tonducci); a un suo soggiorno e insegnamento ferrarese, allude un altro documento notarile del 1490 (Faenza, Archivio notarile, Notaio Girolamo Mancini o Montini, XIII, p. 162) citato dal Saitta (A. C. ..., p. 533). Comunque, nella capitale estense e impegnato nei suoi doveri magistrali allo Studio, egli era sicuramente nel 1491 (cfr. Pardi).
In quell'anno vi pubblicava, infatti, per uso didattico, il celebre corso di Ugo Benzi da Siena sul Canone (I, fen 1-2) di Avicenna (cfr. P. Lockwood, Ugo Benzi..., Chicago 1951, pp. 174, 229, 394, 396), insieme ad alcune "quaestiones" del noto "physicus". A questo scritto, intitolato nell'incunabolo: Expositio Ugonis Senensis super primo Canonis Avicenne cum questionibus eiusdem (Ferrariae, [André Belfort] 13 agosto 1491; v. I.G.I., Indice generale degli incunaboli delle Biblioteche d'Italia, III, n. 4946; L. Hain, Repertorium bibliographicum..., n. 9016; British Museum Catalogue of Printed Books..., VI, p. 604), aggiungeva anche un proprio trattatello sulla febbre (Eximii doctoris magistri Antonii Faventini questio de febre edita in felici Studio Ferrariensi). Ilcommento di Ugo e la "quaestio" del C. furono poi nuovamente editi a Venezia "mandato et expensis nobilis D. Octaviani Scoti... Quinto Kal. Maias (27 apr.) 1498. Per Bonetum Locatellum Bergomensem" (cfr. I.G.I. …, III, n. 4947 = Hain,* n. 9017).
Professore di grande fama e che doveva godere di notevole autorità nella cultura universitaria italiana del tempo, il C. non era - come dimostrano i suoi scritti - un pensatore originale, bensì piuttosto il tipico esponente del ceto dei "magistri", altrettanto ben radicato nella tradizione delle scuole, quanto estraneo alle sollecitazioni più nuove che emergevano da personalità o ambienti intellettuali molto diversi. Ma in lui l'orgoglio della propria "dignitas" magistrale e la certezza del valore perenne della "peripatetica veritas" dovevano essere particolarmente forti se, nello stesso anno 1491, iniziò e condusse poi a lungo una polemica con Giovanni Pico, a proposito di alcune dottrine che questi aveva sostenuto nel De Ente et Uno. Nella sua prima epistola, il C. iniziava dicendo che il libretto di Pico non trattava affatto dell'argomento indicato dal titolo, giacché principale proposito dell'autore era "disputare an iuxta Platonis ens, unumque sese invicem mutuo consequantur, an ut Academici putant unum sit ente communius, sed hoc non est de ente et uno pertractare, sed de mutua entis uniusque conversione, nec omnino absolute, sed iuxta Platoneni dumtaxat, nec enim si quispiam philosophus eam solum quaestionem, agitaret, quae est an anima immortalis sit propterea de anima disputaret, sed de sola animae immortalitate tractatus haberetur". Ma l'obiezione più grave era un'altra e mirava a contestare l'affermazione pichiana che tutti gli accademici avessero ritenuto "Deum iuxta Platonem vere ac proprie ens non esse". A questo proposito il C. non mancava di richiamarsi a Temistio e a contrapporre, d'altra parte, le opinioni peripatetiche, confortate dalle citazioni di Aristotele e di Tommaso; ed insinuava che Pico avesse forzato a tal punto le dottrine degli autori da lui ricordati da cader quasi nel mendacio. La risposta di Pico (che pure in una lettera a Niccolò Leoniceno aveva chiamato il C. "gravissimus philosophus") fu altrettanto cortese nella forma, quanto dura nella sostanza. Respinte le osservazioni relative al titolo che giudicava oziose, ribadì la esattezza della sua interpretazione del testi dei platonici, confermata "uno ore" da Siriano, da Procio, da Plotino e da tutti gli altri interpreti di Platone, compresi tra essi Amelio e Giamblico. Riguardo poi all'identificazione delle idee con Dio, oppure alla sostanziale distinzione tra "esse" e il "superens", la sua replica era ancora più netta. Infatti, appellandosi ai "rudimenta... et quasi incunabula" della dottrina platonica, così scriveva: "Quae diversitas abunde faciet ut Deus, quidem quatenus exemplar est hominis, equi, leonis, ens dici vere possit, quatenus vero nihil respicit extra se, nullanique ad res creatas habet habitudinem, sed in suae divinitatis recessus solitarius manet, appellationem omnem mentis excedat, sitque eius neque nomen, neque opinio ut Dionysius inquit". Il C. replicò subito con una lettera, datata "ex Ferraris II Calendas Iunii 1491", nella quale tornò a ripetere le sue obiezioni, richiamandosi a tutta la tradizione scolastica ed ampliando il campo della disputa alla stessa definizione del vero e del falso e del bene e del male, con il rinnovato ricorso alle "autorità" di Alberto Magno e di Tommaso. Chiudeva il suo scritto con questa frase ironica: "Rogo igitur obsecroque ut, eo amore quo Angelo tuo Politiano, viro nostrae aetatis doctissimo, platonici dogmatis veritatem aperire conatus es, nobis quoque eodem zelo nodos ac syrpos nostrae imbecillitatis exsolvas. Ego quidem plurimis lectionibus et medicandi officio interim sum implicitus; tu vero, qui totus contemplationi vacas et per gradus IV in profundam del caliginem niti potes, nullo vel paucissimo labore e tenebris lucem vindicabis". Alle esplicite insinuazioni del C. che, come si vede, marcava nettamente la divergenza tra il suo "serio" mestiere di piofessore e la speculazione "privata" e, per lui, mistica e "caliginosa" del nobile mirandolano, Pico rispose, utilizzando anch'egli largamente i testi tomistici, ritorti contro l'avversario: "Nec possum non mirari te, etiam si Platonica non legeris in Thomae tamen lectione frequentem huic adeo insistere argumentationi, Deus est, ergo est ens, cum ipse Thomas ad verbum dicat, non se haec mutuo consequi esse et essens, sed ad diversas omnino quaestiones neque cognatas invicem pertinere". Non solo: si fondò proprio sulla distinzione in Dio tra l'"est" e l'"esse" per affermare che il concetto di Dio non è compreso "in alcun genere" e che esso, pertanto, "nec essentia est, nec essentiam habet" ed è, dunque, "superens". Ma, soprattutto non lesinò al suo avversario osservazioni e battute assai dure, quando scrisse che il C., per la sua ignoranza del greco, né aveva letto davvero i platonici, né conosceva gli stessi aristotelici. L'insistenza del C. nel citare Temistio era, infatti, solo il frutto di una sua lettura della versione latina di Ermolao Barbaro; e se parlava di Simplicio lo faceva in un modo che dimostrava la sua sostanziale ignoranza dei testi del commentatore greco. La lunga e prolissa lettera del faentino che raccoglie le sue terze obiezioni non aggiunge molto al dibattito, perché torna sempre ad insistere sugli stessi temi, con un'argomentazione sempre tratta dai grandi maestri scolastici e, soprattutto, da Tommaso, le cui dottrine "genuine" intorno ai concetti di "essentia", "ens" ed "existentia" oppone nettamente all'interpretazione del tutto indebita del Pico ("Sed dicas rogo ubinam in Thoma didicisti Deum essentiam non esse? cum totus Thomas huic sententiae reclamet... ?"). Poi, con una lunga discussione che rivela, al tempo stesso, la sua solida conoscenza dei maestri aristotelici e la tipica verbosità e il procedimento capzioso di un classico "magister", le "contraddizioni" di Pico sono minutamente analizzate e sottoposte "al vaglio" di una sottile "inquisitio" logica che rivela anche la familiarità del C. con i procedimenti propri della tarda logica scolastica. Irritato probabilmente dal tono e dal metodo della epistola del C., Pico non dové rispondere; o, almeno, non ci è giunta la sua replica definitiva, bensì soltanto una serie di appunti marginali che le edizioni di Basilea delle sue opere presentano, però, sotto la forma di una replica continua. Ma dello stato d'animo con cui vergò queste note sono testimonianze le notazioni spesso insolenti che costellano il testo. Tuttavia, abbia o non abbia ricevuto la replica del suo interlocutore, il C. affidò ad una nuova epistola le sue quarte obiezioni; e, in forma più rapida e concisa, riaffermò decisamente il suo punto di vista ("Non ideo dictum est Deum ens non esse quod esse in Deo pro essentia est, sed quia esse non est aliud ab essentia, quod longe diversum est..."). Infine, accusò chiaramente il Pico di non aver risposto alle sue obiezioni, invitandolo finalmente a replicare davvero e concludere la disputa. La morte di Giovanni Pico, avvenuta il 17 nov. 1494, interruppe il filo della polemica che, del resto, aveva sino ad allora testimoniato piuttosto la difficile comprensione reciproca di due culture e di duemetodi filosofici sempre più lontani e incomunicabili. Il nipote Gian Francesco si assunse, tuttavia, l'onere di chiudere l'ormai lunga querelle e lo fece scrivendo al medico faentino una lunga epistola, di andamento apologetico che, in sostanza, mirava piuttosto ad esaltare la memoria dello zio e a celebrare la mistica speculazione dionisiana, considerata come la più alta forma di verità speculativa e teologica. Poi, con una breve lettera del C. e una risposta di Gian Francesco, fra il 16 apr. 1495 e il 6 genn. 1496, la disputa ebbe termine, con reciproco scambio di complimenti. Pochi mesi dopo i documenti di questo singolare "duello epistolare" erano raccolti nell'edizione degli Opera di Giovanni Pico edita a Bologna nello stesso 1496, per i tipi di Benedetto Faelli (cfr. I.G.I. ..., IV, n. 7731 - Hain, 12992; British Museum Catalogue of Printed Books..., VI, p. 843), per passare, più tardi, nelle edizioni di Basilea (cfr. Iohannis Pici, Opera, I, Basileae 1557, pp. 256-312).
Chiusa la non breve schermaglia con Pico, il C. continuò il suo insegnamento ferrarese, accompagnato da una fama sempre solida e dal prestigio che gli procuravano la sua indubbia cultura scolastica e le sue doti di maestro. Ed è probabile che proprio queste sue doti favorissero la sua chiamata nella più celebre scuola del tempo: lo Studio patavino. Secondo la documentazione fornita dal Facciolati, un decreto del Senato veneziano gli attribuiva, il 30 dic. 1505, la cattedra di "medicina teorica ordinaria", con lo stipendio di 400 ducati.
Il Nardi (pp. 287 s.) conferma tale notizia con la citazione della "cronaca" della propria "disputatio temptativa" stesa da Antonio Surian in una pagina del volume in cui copiava le lezioni tenute dal Pomponazzi nel 1500 e 1504, nella quale il C. è citato come uno dei "copromotori" (e cfr. Napoli, Bibl. naz., VIILD, 81, f. 76v). Gli Acta graduum academicorum..., dell'università di Padova non registrano, invero, questo avvenimento; però, già il 9 luglio 1506, presentano il C. quale "copromotore" della laurea "in artibus" dello stesso Surian; e il suo nome continua a figurare quasi ininterrottamente tra i maestri e lettori partecipanti ai vari "temptativa" o alle lauree in arti o in medicina, sino al 5 luglio 1509, quando il C. è, per l'ultima volta, uno dei "copromotori" della laurea "in artibus" di Luigi da Brescia (Acta graduum, n. 476 [p. 163]; n. 853 [p. 202]).
L'insegnamento padovano del C. dev'essere, dunque, terminato con la fine dell'anno 1508-1509; né alcuna fonte ci informa, in modo sicuro, sui suoi successivi impegni accademici.
Sembra, però, comunque da escludere che si possa riferire a questo periodo quel suo passaggio, come maestro, nell'università di Parigi di cui, pure, parlano, in modo abbastanza concorde, diverse fonti antiche. Il Valgimigli (p. 203), constatando l'assoluta mancanza di qualsiasi documentazione nota relativa ad un suo soggiorno parigino, ritenne, a ragione, di non recepire questa notizia nella sua breve presentazione delle vicende biografiche del Cittadini. Ed è certo più probabile che egli riassumesse la cattedra di medicina nello Studio ferrarese; anzi, lo stesso Valgimigli (p. 204) sottolineò il dato che il maestrosi trovava fuori di Faenza e, probabilmente, ancora impegnato dalla sua attività universitaria, quando, il 31 ott. 1512, stendeva il proprio testamento.
Le ultime notizie della sua vita sono costituite dalla elezione ad anziano municipale nel primo bimestre del 1517 e dal probabile ritorno definitivo in patria, a non molta distanza dalla morte avvenuta a Faenza, poco prima del 29 apr. 153 (Valgimigli, p. 204).
Il testamento del figlio Camillo, rogato dal notaio faentino Giovanni Evangelista Gregoriani, il 29 ag. 1529, testimonia che il C. fu sepolto "in ecclesia s. Petri Celestini de faventia" e che ai futuri eredi fu imposto l'obbligo di erigergli "unum tumulum seu sepulcrum de lapide vivo seu lapidibus histrianis" (ibid.). A costoro spettava pure l'onere di far stampare, "con ogni studio e diligenza", entro un decennio dalla morte dello stesso Camillo, le opere del padre ancora inedite, così elencate: Auscultationes in primam quarti e quartam primi Avicenne; In amphorismos Ipocratis; In libros Aristotelis de anima et in physicam eiusdem; Missellanea; Liber de substantia orbis et Auscultationes in Isagogas Porphyrii; In praedicamenta Aristotelis et sex principia Giberti et in librum Parierminias arista et iunior inventa; De natura generis scientie subiecti; De maximo et minimo; De velocitate motuum; Paraphrasis in XII metaphisice etAverrois commentaria; Paraphrasis in placita Petri Mantuani [cioè, probabilmente, Pietro degli Alboini da Mantova, il noto logico e "sofista" della fine del Trecento] et inpugnatio et comentum in dialectica Pauli Veneti.
L'elenco di questi titoli (tra i quali compaiono anche i pochi scritti del C. oggi a noi noti) è assai interessante perché presenta un panorama molto significativo degli interessi e delle conoscenze tipiche di un medico e filosofo scolastico quattrocentesco, caratterizzati dalla ferma fedeltà alle dottrine peripatetiche, dallo studio di Avicenna e di Averroè, ma anche dall'attenzione, sia pure talvolta polemica, per gli ultimi sviluppi della tradizione "nominalistica" e per alcuni suoi classici rappresentanti. Ed è certo da rimpiangere la perdita o la mancata conoscenza di alcuni scritti del C. (come il De maximo et minimo, il De velocitate motuum o la Paraphrasis in placita Petri Mantuani) che ci permetterebbero di precisarne meglio la cultura e gli atteggiamenti dottrinali, anche in rapporto ad alcune discussioni e problemi di grande importanza nella storia dell'insegnamento e dei dibattiti filosofici del tempo. In effetti, le uniche opere del C. che videro la luce a stampa, dopo la sua morte, furono le Auscultationes in Parvam artem Galeni, edite a Faenza, il 20 settembre 1523, dallo stampatore cremonese Giovanni Maria Simonetti, a spese e per iniziativa del figlio (per i rogiti notarili relativi a questa edizione, cfr. Valgimigli, pp. 206 s.), e il Commentarium in posteriora Aristotelis Analytica, stampato, sempre a Faenza e dallo stesso Simonetti, nel 1528. Alle Auscultationes Giovanni Battista Casali, che ne curò l'edizione, premise una prefazione assai laudativa, interessante perché fornisce un'altra lista di opere del C. concordante in gran parte con quella contenuta nel testamento di Camillo. Come ha, osservato il Garin (La cultura filosofica..., p. 309), proprio il commento agli Analytica ebbe, insieme alle epistole polemiche scambiate con Pico, "la sorte singolare di salvare il ricordo dell'autore oltre i secoli". Infatti il Vossio nel De origine et progressu idolatriae (III, 41, in Opera, Amstelodami, 1700, V, p. 346a) citò la sua opinione sull'anima degli animali; e questo testo servì a Pierre Bayle che, nel notissimo articolo "Rorarius" (Dictionnairecritique, Paris 1740, IV, 79a), scrisse avere "Antoine Cittadin... reconnu. de la raison dans les animaux". Poi l'Analyse raisonnée de Bayle (Londres 1773, VIII, p. 39) "riprese il luogo e consacrò il nome del Peripateticus miles nel titolo di un articolo", legando così la sua fama "a uno dei grandi argomenti di moda nel '700". Un'altra curiosità aneddotica connessa alla biografia del C. è la supposta identificazione, proposta con particolare insistenza dal Capparoni, di questo professore così noto e celebrato ai suoi tempi con il medico ciarlatano Antonio Faentino per cui fu scritto l'Erbolato di Ludovico Ariosto. Ma gli argomenti opposti dal Malaguti rendono insostenibile una simile ipotesi.
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