CAPPELLO, Antonio
Nacque a Venezia il 27 marzo 1736 da Antonio Marino e Giuseppa Poli. Favorito dalla sorte, il giorno di s. Barbara del 1756 cavò la Balla d'oro acquisendo così il diritto di partecipare alle sedute del Maggior Consiglio, senza diritto di voto, prima di aver compiuto i venticinque anni. Savio agli Ordini sin dal 18 sett. 1762 (confermato il 30 giugno 1763), ricoprì numerose magistrature di carattere economico-finanziario: provveditore alle Pompe (nominato il 4 ott. 1763 e il 26 maggio 1771), provveditore sopra Feudi (29 sett. 1765), membro del Collegio dei dieci savi sopra le decime in Rialto (25 nov. 1767), provveditore sopra Beni inculti (8 apr. 1775), provveditore alle Beccarie (3 dic. 1772 e 16 genn. 1777), provveditore in Zecca alla cassa ori e argenti (26 genn. 1777). Il 30 giugno 1775 per la prima volta è tra i savi di Terraferma (rieletto il 30 giugno 1778); il 25 febbr. 1778 è designato ambasciatore a Madrid, dove prende servizio solo tre anni dopo, nel marzo del 1781.
La sua attività presso la corte borbonica lo qualifica tra i più preparati ed attivi ambasciatori della Repubblica veneta. Esperto conoscitore di uomini e situazioni, intuisce subito che, al di là dell'etichetta fastosa e complicata che circonda i sovrani, è il conte di Floridablanca "l'anima di tutti i consigli e di tutte le deliberazioni" (disp. 28 dic. 1784);nella valutazione della situazione interna della Spagna si ispira al cauto e moderato riformismo tipico di alcuni degli uomini migliori dell'aristocrazia veneziana di fine '700.Commentando la conclusione dei lavori del canale imperiale di Aragona sottolinea la necessità che la Spagna vivifichi l'economia del suo vasto impero e migliori le condizioni di vita dei suoi sudditi, "impresa assai più vantaggiosa che quella di aggiungere al suo imperio a forza d'oro e di sangue dei nuovi inutili territorj" (disp. 23 nov. 1784).Disapprova la decisione di aumentare i dazi, provvedimento assurdo "in questi tempi illuminati" e che avrà solo effetti controproducenti, contraendo il volume globale del commercio e incrementando il contrabbando (dispaccio del 4 marzo 1783).I suoi dispacci sono particolarmente ricchi di notizie sulle finanze dello Stato e sulla situazione delle colonie d'America: annota i carichi di metalli preziosi che giungono da Cadice, riferisce sulla rivolta di Tupac-Amarti che desolava le regioni del Perù e sui torbidi in Messico e altri territori, in seguito ai quali l'America "ben lungi dal presentare uno stato più florido non porge da tutte le parti se non perdite e pericoli" (dispaccio del 27 genn. 1783).Significativo un suo giudizio sulla bancarotta dichiarata dalle colonie americane, che egli definisce "mancanza di fede pubblica" che "fa un gran torto a un governo nascente" (dispaccio del 4 sett. 1781);la sua opinione sulla guerra d'indipendenza è negativa anche se espressa con molta prudenza per non compromettereil governo veneziano con la Francia che appoggiava gli insorti. Fedele ed abile interprete delle direttive del suo governo, si prodiga efficacemente per mantenere integra la neutralità di Venezia, cercando di impedire che imbarcazioni veneziane siano coinvolte nel trasporto di armi e vettovaglie per conto delle potenze belligeranti; energico è il suo impegno per ottenere congrui risarcimenti per le navi che si trovavano a Cadice e su cui era stato posto l'embargo dalle autorità spagnole.
Il C. si trova ancora in Spagna quando il 31 luglio 1783 è designato alla sede di Parigi; lasciata Madrid nel giugno del 1785, raggiunge la capitale francese nel dicembre dello stesso anno. Il C. non immaginava di certo che alla corte di Luigi XVI gli sarebbe toccato in sorte di assistere a quella che egli stesso alcuni anni più tardi avrebbe definito "la più sorprendente rivoluzione che la posterità averà pena a credere". Dotato di una non comune capacità di capire e prevedere il corso degli eventi, il C. è per noi oggi testimone prezioso e di raro interesse per comprendere come la classe dirigente veneziana abbia sentito e vissuto gli anni della Rivoluzione francese immediatamente precedenti la campagna d'Italia di Napoleone Bonaparte.
Sin dal 1785 i suoi dispacci porgono acute osservazioni sulla preoccupante situazione interna della Francia; il 15 dic. 1788coglie con singolare preveggenza le possibili conseguenze della decisione del Necker di convocare gli stati generali, osservando che il terzo stato, ormai rappresentante la parte più numerosa ed attiva della popolazione, rifiuta la condizione subalterna cui da secoli è destinato e minaccia un'insurrezione in tutto lo Stato.
Il C. è in questo momento un moderato ammiratore del Necker e cautamente positivo è il suo giudizio sugli eventi francesi sinché essi si svolgono sotto il controllo dell'attivo banchiere ginevrino. Sin dall'11 maggio 1789 il C. non esita a definire "momento intieramente decisivo per la Francia" l'apertura degli stati generali, di cui segue con attenzione i lavori descrivendo con lucidità e penetrazione le dispute sul voto per ordine o per testa. Il giuramento della Pallacorda, con la decisa svolta in senso rivoluzionario che imprime agli eventi, segna lo spartiacque del suo giudizio politico: con questo atto il terzo stato si è messo contro l'ordine costituito, i "novatori" hanno rotto un precario equilibrio e la Francia si sta avviando ad una rovinosa esperienza storica. Anche se i suoi giudizi sulla Rivoluzione da questo momento subiscono una recisa inversione e si susseguono in un crescendo di incomprensioni e condanne senza riserve, non per questo perdono di interesse: l'intelligenza e la capacità di previsione soccorrono il C. anche nei mesi successivi, quando tutto un mondo, che era anche il suo mondo, gli rovina davanti agli occhi con una violenza e rapidità di cui egli stesso talvolta non sa rendersi ragione. Con il luglio già usa il termine di "anarchia" per indicare la situazione di Parigi; la presa della Bastiglia, "che riduce la Francia ad una democrazia sotto un Re", è un fatto per lui talmente sconvolgente da indurlo senz'altro a invocare il richiamo dal suo governo. La notte del 4 agosto, l'abolizione delle decime ecclesiastiche, l'attacco ai diritti feudali gli ispirano considerazioni pessimistiche sullo stato della Francia ove "non vi è più potere esecutivo, non leggi, non magistrati e non ciò che in francese chiamasi police". Le giornate di Versailles del 5-6 ott. 1789, di cui coglie con prontezza il valore storico fondamentale, lo spingono a considerare senz'altro in dissoluzione la monarchia francese, ormai preda della tirannide democratica. In questa situazione il C. fa sue le considerazioni storiche correnti negli ambienti più conservatori: sono stati gli attacchi degli spiriti forti alla religione a creare le premesse della Rivoluzione, sono stati i libri pregni dei "lumi del secolo" a diffondere le massime perniciose che hanno sollevato i sudditi contro il sovrano. L'estensione dei "lumi" ad ampie masse ha reso filosofi popolo e soldati, ha diffuso lo spirito di una "libertà chimerica che è l'anarchia" e che ha condotto la Francia ad avere un "re senza potere, un popolo senza libertà, ordini senza esecuzione, esecuzioni senza ordini". Il 21 dic. 1789, prendendo lo spunto dalla notizia che il Mirabeau e altri deputati hanno compilato un codice per insegnare a tutti i popoli i diritti dei sudditi e intendono diffonderlo in varie lingue, il C. suggerisce al governo veneziano di intraprendere un'azione propagandistica a vasto raggio tra le popolazioni per convincerle dei danni della Rivoluzione francese.
Gli ultimi mesi della sua permanenza a Parigi sono molto difficili ed accrescono in lui il sentimento di avversione per i nuovi governanti della Francia; sin dal settembre 1789, Etienne F. Hénin de Cuvillier, incaricato d'affari della Francia a Venezia, aveva segnalato al ministro degli Esteri de Montmorin che i dispacci del C. da Parigi erano improntati a pessimismo ed esprimevano sentimenti di ostilità nei confronti del popolo francese e aveva compiuto un passo ufficiale di protesta presso il governo veneziano. Malgrado il Senato gli avesse riconfermato la sua fiducia, la posizione personale del C. si stava facendo difficile e del resto egli stesso era ansioso di rientrare in patria per assumere un incarico diplomatico meno difficile. Costretto a portare per strada la coccarda tricolore e a sottostare alle disposizioni della nuova municipalità parigina, il C. lascia Parigi nell'agosto del 1790, pieno di rancore; ma questo risentimento non gli impedisce di darci nella relazione, datata il 2 dicembre, ma letta in Senato il 17 marzo 1791, uno dei più immediati e brillanti giudizi che i contemporanei ci abbiano lasciato sulla Rivoluzione francese.
Anche se è certamente eccessivo il giudizio del Kovalevsky che la paragona alle famose Riflessioni sulla Rivoluzione francese del Burke, non v'è dubbio che in essa il C., al di là delle forzature polemiche, dimostra una capacità di analisi storica ben di rado presente in altri uomini politici del suo tempo. Egli illustra dapprima i precedenti storici della "grande catastrofe", che ha rovinato la Francia per lunghissima serie d'anni: il deficit trascinatosi sin dai tempi di Luigi XIV e mai sanato è senza dubbio la causa prima e immediata della Rivoluzione; clero e nobiltà vollero pervicacemente sostenere "il loro privilegio, o piuttosto abuso di non pagare le imposizioni", e il Necker, di cui ora il C. dà un giudizio negativo, non si è accorto dei pericoli che correva a far "governare il popolo". Gli "abusi senza numero", la "debolezza del Re", il "dispotismo dei ministri, l'odiosità del regime feudale" sono state le cause più evidenti del malcontento generale del terzo stato. Per il C. non vi è dubbio che assurdo è il principio dell'eguaglianza di tutti gli uomini e chimerica ne è l'attuazione, che ha portato alla distruzione della nobiltà e della monarchia, ormai soppiantata da una "democrazia regale, cioè un governo senza nome"; i Francesi hanno voluto stabilire un genere di democrazia appena realizzabile in una piccola città o cantone, utopistico in una grande nazione. Non è da escludere, a suo avviso, l'eventualità che il popolo si spinga sino a chiedere un giorno anche "le leggi agrarie", "idea assurda, impraticabile". Più calata nella realtà e frutto della sua personale esperienza l'osservazione che il nuovo regime non è riuscito a sanare il deficit e che la situazione economica generale va peggiorando di giorno in giorno per la paralisi quasi completa dell'industria e del commercio. Il C. conclude la sua relazione osservando che la rivoluzione presente necessita un'altra rivoluzione e gli avvenimenti del 10 ag. 1792 confermano puntualmente la sua previsione.
Appena tornato a Venezia il C., che sin dal 31 dic. 1790 è stato rieletto savio del Consiglio, si accinge ad una nuova missione diplomatica a Roma, cui era stato designato già il 19 sett. 1789. Nel suo primo dispaccio da Padova l'8 apr. 1791, durante il viaggio di trasferimento, il C. esprime il suo rammarico che le controversie confinarie con lo Stato pontificio relative alla bocca di Goro e al fiume Tartaro non siano state superate dal suo predecessore. Le sue sono preoccupazioni infondate perché ormai le vicende della Rivoluzione francese sono talmente preminenti sulla scena politica europea da lasciare ben poco tempo al papa e alla Repubblica veneta di contendere per minute questioni di frontiera. È del resto lo stesso C. ad affermare con sicurezza che ormai anche la corte romana è costretta ad abbandonare il suo ruolo di "spettatrice indolente" per diventare invece "ispettacolo a tutto il mondo in momenti così ardui"; così i suoi dispacci da Roma, ad eccezione di qualche notizia sulla questione di Occhiobello, tacciono completamente sui rapporti tra Roma e Venezia e sono invece pieni di notizie sulle vicende europee e sulle reazioni del pontefice alle novità francesi.
Sono i momenti della controversia sulla costituzione civile del clero che minaccia di provocare un vero e proprio distacco della Francia dalla Chiesa cattolica e le informazioni sulle prese di posizione del papa si mescolano ai particolari sulle operazioni militari in corso. Il C. ormai parteggia in modo aperto e violento per la controrivoluzione, si rammarica del fallimento della fuga di Varennes, depreca le "indecenze, violenze, latrocinii" dei Francesi ad Avignone, definisce "scellerata ed impolitica" la decapitazione di Luigi XVI, esulta ad ogni notizia di successi degli eserciti della Coalizione, si abbandona ad espressioni di sconforto di fronte ai progressi "veramente sorprendenti" delle armi francesi. È per lui motivo di particolare soddisfazione constatare che "l'umanità e la politica hanno motivo di consolarsi che l'ingannatrice ma lusinghiera Filosofia Francese non ha fortunatamente attaccato gli altri popoli"; il popolo di Roma rimane fedele al papa e, anche quando i tumulti diventano più violenti e conducono il 13 genn. 1793all'uccisione di Bassville e a un tentativo di incendio del ghetto, il suo giudizio è positivo e si salda alla convinzione che quello che egli ormai definisce "il nuovo ordine di cose" non riuscirà a consolidarsi in Francia e si avvia ad una catastrofica rovina "in cui il precipizio non va più a gradi". Il C. alterna dispacci densi di solido buon senso e ispirati a una visione di Realpolitik ad altri venati di sconforto esistenziale e di rassegnato fatalismo: così deplora "l'assurdo grande" dell'"indifferenza di tutte le religioni" prevista dalla costituzione civile del clero e ne coglie le pericolose implicazioni politiche, definisce "parto dei Monti" la vacillante alleanza delle potenze reazionarie, ma nello stesso tempo giudica genericamente "sempre più tenebroso ed incerto" l'"aspetto politico degli affari" dell'Europa, oppure attribuisce il fallimento della congiura giacobina di Torino, opera della sistematica "sceleratezza francese", alla mano della Provvidenza divina che "vuole salva l'Italia in mezzo a così critiche circostanze di tempi" (dispaccio 7 giugno 1794).Benché lo conforti la previsione che la "Storia del Mondo insegna che una Repubblica Democratica non può consolidarsi in un imperio così grande come la Francia" (dispaccio del 23 ag. 1794), quando riferisce la notizia che a Roma si sarebbe scoperta una congiura di molti servitori per assassinare i padroni riesce solo a commentare che "in tempi di tanta sceleratezza niente più sorprende e niente riesce incredibile" (7 sett. 1794). L'8 nov. 1794il C. dà un commento agli eventi dell'8-9 termidoro in cui si alternano realistici ed esatti giudizi sul significato storico della caduta di Robespierre a valutazioni apocalittiche, che sembrano quasi inspiegabili in un uomo di così grande esperienza politica. Secondo il C. dall'interno stesso della Francia, dopo il 9termidoro, può "risorgere un ordine migliore di cose" guidato dagli elementi moderati ormai subentrati ai giacobini; un "sistema di moderazione comincia a succedere alla tirannia in Parigi" e si fanno sentire le voci che reclamano una ripresa delle attività dell'industria, agricoltura, commercio. Sarà dunque la Francia, esclama il C., a dover mettere ordine in Francia, quando però "non sia scritto nei destini del cielo il rovesciamento d'ogni ordine sociale, che sarebbe l'antesignano della fine del mondo".
Rientrato a Venezia nel dicembre 1794, il C. ricopre ancora cariche di rilievo: procuratore di S. Marco de supra (7 dic. 1795), aggiunto alla Provvision del danaro (7 sett. 1796), riformatore allo Studio di Padova (6 ott. 1796). Uomo colto e amante soprattutto delle arti figurative, è in stretti rapporti col Canova cui affida l'incarico di modellare i bassorilievi in plastica che ornano il salone più grande del suo palazzo di Venezia, meta, secondo quanto riferisce il Dandolo (p. 94), di molti giovani artisti. Visse in disparte gli anni dell'occupazione francese e del governo austriaco.
Morì a Venezia il 22 ott. 1807.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun,Nascite, lib. XIV; Segretario alle voci,Barbarelle 1641-1796,Elezioni del Senato, regg. 24, 26; Senato,Dispacci ambasciatori,Spagna, filze 181, 184; Ibid., Francia, filze 261-263; Ibid., Roma, filze 304-306; Ibid., Expulsis papalistis, filza 45;Venezia, Civico Museo Correr, mss. P.D. C. 904/19; P. D. C. 2067/32; P. D. C. 2081/282. I dispacci da Parigi sono parzialmente pubblicati in C. Tentori, Raccolta cronologico-ragionata di docum. inediti che formano la storia diplomatica della rivoluz. e caduta della Repubblica di Venezia..., I, Augusta 1799, pp. 21-39, e in M. Kovalevsky, I dispacci degli ambasc. veneti alla corte di Francia durante la Rivoluzione, Torino 1895, pp. 1-146.La relazione di Francia è edita in Relazioni degli ambasc. veneti al Senato, s. 3, Francia, a cura di R. Moscati, Milano 1943, pp. 191-196(vedi anche le pp. XXXVII-XXXIX); in precedenza era già stata pubblicata in S. Romanin, Storia docum. di Venezia, IX, Venezia 1916, pp. 159-168 e, solo parzialmente, in P. Daru, Histoire de la République de Venise, Paris 1819, V, pp. 114-24, e in A.Errera, Storia dell'econ. politica nei secc. XVII e XVIII negli Stati della Repub. veneta..., Venezia 1877, pp. 527-531, Cfr. inoltre G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni..., Venezia 1955, pp. 93 s.; C. Massa, La Rivoluz. francese nei dispacci degli ambasciatori veneti, Livorno 1882, pp. 6-26; L. V. Pastor, Storia dei papi, XVI, 3, Roma 1955, pp. 543 s., 547, 558, 563, 566, 568.