CANEVARI (Cannevari, Canevaro, Canavari, Cannerari), Antonio
L'opera di questo architetto, nato a Roma nel 1681 ed allievo di Antonio Valeri, è tuttora assai poco studiata. Essa appartiene al complesso momento storico di transizione tra l'estremo barocco, nelle sue forme più propriamente rococò, ed il recupero delle valenze formali classicistiche. Nonostante un'evidente adesione ai temi del classicismo, residui eclettici palesemente riconoscibili valsero al C. il biasimo del Milizia; eppure, nella sua opera, affiora palesemente, sebbene talora in maniera equivoca, l'aspirazione ad una semplificazione del linguaggio che, se può considerarsi impoverimento rispetto alla tematica barocca, individua unn tendenza presente a Roma sin dal tardo XVII sec. e soprattutto nell'opera di Carlo Fontana.
Nel 1703 il C. vinse il primo premio del concorso Clementino con un disegno di una residenza papale (Roma, Accad. di S. Luca, Arch. storico, Dis.architett. 452-454); nel 1715 partecipò al concorso per la sacrestia della basilica di S. Pietro in Vaticano, che venne vinto da F. Iuvara. Su iniziativa del cardinale Fabrizio Paolucci, il C. intervenne nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo al Celio (secondo la lapide i lavori erano terminati nel 1718) e quindi nel convento, sempre aiutato, tra gli altri, da A. Garagni dell'Ordine dei padri della Missione.
Nel restauro della chiesa, l'architetto, pur rispettando la stratificata facciata medioevale, attuò la totale trasformazione dell'invaso basilicale paleocristiano. Egli volle attingere ad una spazialità più greve, pregna di echi cinquecenteschi, con pilastri affiancati dalle antiche colonne, in un motivo di serliana all'interno dell'orditura principale di lesene, che serrano arconi foggiati in alto a voluta. Recenti modifiche hanno purtroppo alterato l'opera del C. che, dalle vecchie immagini, il Portoghesi giudica non priva di interesse.
Nel 1721 il C. fu impegnato nel completamento - con la facciata - della chiesa delle SS. Stimmate di S. Francesco, che presenta una soluzione originale, in rapporto con esempi napoletani, specie del Fanzago: un arco al centro del secondo ordine, sovrapposto al loggiato basamentale, accoglie la statua del santo titolare tra motivi borrominiani di cherubini.
Tre anni dopo il C. attendeva all'ampliamento di S. Eustachio, muovendo dalla ricostruzione tardo secentesca della fabbrica.
A conclusione dello spazio, già banalmente configurato in una navata unica con cappelle laterali, l'architetto pose un vasto transetto a sala, con una cupola che doveva riassumere in sé tutto il valore dell'organismo cultuale. Sebbene, in luogo della cupola, sia stata eseguita una grande volta a padiglione, deve porsi in rilievo la inedita soluzione planimetrica, che, priva di seguito nell'architettura romana, "sta a dimostrare nel C. una posizione di apertura verso nuove tipologie" (Portoghesi). Assai notevole è pure la facciata della chiesa, preceduta da un portico ed accompagnata da una preesistenza, il campanile romanico.
Tra i progetti condotti dal C. ma non tradotti in fabbrica va ricordato quello per la facciata di S. Giovanni in Laterano: nel 1732 il C. partecipò anche al grande concorso, vinto da Nicolò Salvi e da L. Vanvitelli, mentre i lavori vennero poi affidati ad Alessandro Galilei (Schiavo).
Dopo il totale rifacimento neoclassico non è più possibile la lettura del portico di S. Paolo fuori le Mura, dal C. eseguito insieme con Matteo Sassi sotto il pontificato di Benedetto XIII; è oggi distrutto il pal. Bolognini Torlonia in piazza Venezia nella cui fabbrica il C. era intervenuto.
Fin dal 1716 il C. era arcade con il nome di Elbasco Agroterico; a lui fu affidata la sistemazione del cosiddetto Bosco Parrasio, il giardino e gli edifici dell'Arcadia, sulle pendici del Gianicolo, per acquistare il quale Giovanni V del Portogallo aveva donato 4.000 scudi: la prima pietra fu posta il 10 ott. 1725 e dal 9 sett. 1726 fu luogo di riunione dell'Accademia. Il complesso, assai estrosamente articolato, è stato interamente trasformato da G. Azzurri nel sec. XIX; cfr. la pianta e l'alzato nella cart. D. 307 s. dell'Archivio dell'Accademia di S. Luca in Roma e la particolareggiata descrizione illustrata da una stampa disegnata dal C. stesso, che la firmò assieme all'incisore V. Franceschini, in Giovardi.
Il 10 marzo 1727 Francesco ed Antonio Arrighi sottoscrissero il contratto per l'esecuzione del ciborio e della custodia in rame dorato e pietre dure per l'altar maggiore della chiesa di Montecassino, su disegno del C. (A. Caravita, I codicie le arti a Montecassino, III, Montecassino 1870, pp. 445 s.), che doveva ispirarsi a quello berniniano di S. Andrea al Quirinale. Il fatto che il Milizia (1785) abbia attribuito il ciborio al Salvi conferma che questi dovette curare l'esecuzione del disegno del C., suo maestro, come sarà successo per altre opere in corso di esecuzione, dato che il C. nel 1727 era senz'altro partito per il Portogallo. Infatti P. L. Ghezzi registra a piè della caricatura dell'architetto, eseguita il 2 genn. 1728: "Canavari... mà io lò lasserei passare per mediocre misuratore mà con la sua fama e ciarla havea tutti i negotii di Roma perché siamo nel secolo dell'ignoranza e per buona fortuna di Roma se ne andiede in Portogallo, di dove non sè nè saputo più nova" (Schiavo, pp. 27 s.).
Evidentemente il C. si era fatto conoscere da Giovanni V durante i lavori all'Arcadia, e subito dopo il suo arrivo in Portogallo dovette essere impegnato nei lavori di restauro e di ampliamento del palazzo reale di Lisbona (Paço de Ribeira) completamente distrutto nel terremoto del 1755; e in particolare nella costruzione della scala (ex novo), nella ristrutturazione di alcuni appartamenti (Viterbo de Sousa), e nella torre dell'Orologio, "che, integrata con il vicino palazzo, si elevava alcuni metri più innanzi" (França). Questa ultima, assai apprezzata dalla corte, rese subito famoso il C. tra i contemporanei. Da allora il C. si trova spesso impegnato nell'allestimento degli addobbi fatti in occasione delle cerimonie e festeggiamenti cui partecipava la corte; restarono famosi i fuochi d'artificio realizzati in occasione delle nozze del principe ereditario, il futuro Giuseppe I, nel Terreio do Paço (Viterbo de Sousa; Encicl. dello Spett., II, coll. 1637 s.). Sappiamo anche che spesso, durante queste cerimonie, il C. fu accolto nel cocchio reale (Viterbo de Sousa). Il nome del C. è collegato ai lavori di costruzione del palazzo-convento di Mafra da tutti gli studiosi; la tesi più attendibile (França; Azevedo) è che l'intervento risalga al periodo 1729-30, cioè al periodo immediatamente precedente la consacrazione della basilica di Mafra, (1730) o forse appena successivo, e faccia parte dei notevoli lavori di ampliamento del convento dei cappuccini, inserito nel complesso architettonico assieme al palmo e alla basilica. Intorno al 1730 il C. fu impegnato nella costruzione della residenza estiva di dom Tomàs de Almeida, primo patriarca di Lisbona, a Santo Antão do Tojal, a circa venti chilometri a nord di Lisbona (Smith; Azevedo; Carvalho). Assieme al palazzo il C. avrebbe costruito anche una cappella e un acquedotto per fornire di acqua la dimora. "L'acquedotto termina con una spettacolare fontana collocata al centro di un piccolo edificio dove erano gli appartamenti per il re, in una composizione simile a quella della fontana di Trevi... La fontana di Tojal, col suo disegno festoso, terminante con un tipico arco giovannino, ricorda i sontuosi addobbi delle famose cerimonie di corte ed è una delle prime di una vasta serie di fontane portoghesi del '700 che fiorirono dal Portogallo fino al Brasile" (Smith, p. 103): è questa una delle poche opere del C. giunte fino a noi. Al C. è attribuita anche la Quinta do Correio Mor, a Loures, nella strada tra Santo Antão do Tojal e Lisbona, costruita intorno al 1730 (Azevedo). Al C. fu affidata inoltre, per breve tempo, la direzione dei lavori di costruzione dell'acquedotto delle Aguas Livres che doveva fornire acqua a tutta Lisbona, una delle maggiori imprese sociali realizzate dal re Giovanni V. La costruzione di questa opera monumentale durò circa un ventennio (1729-1748). I maggiori architetti portoghesi del momento furono impegnati in quest'opera: fu affidata inizialmente all'architetto Manuel de Maya, al quale, nel 1732, fu affiancato il C.; ma nello stesso anno il console di Francia a Lisbona, Montagnac, scriveva al suo governo che il re aveva licenziato il C. che da sette mesi dirigeva i lavori dell'acquedotto Aguas Livres, in quanto l'architetto non aveva tenuto gli archi all'altezza accordata (Viterbo de Sousa). Probabilmente il C., dopo l'insuccesso, lasciò il Portogallo.
Nel maggio 1737 troviamo il C. a Napoli, per collaborare con il mediocre architetto G. A. Medrano, colonnello del genio borbonico, alla costruzione del palazzo reale di Capodimonte.
Un episodio, ben documentato dalle carte d'archivio (Schipa, pp. 267-270), generò ben presto un grave dissenso tra i due architetti. Infatti, mentre il C. continuava lo studio dell'organismo architettonico, insoddisfatto del risultato conseguito con i primi disegni preparatori, intendendo compiere un edificio che divenisse "il più rilevante in Europa", il Medrano si impadronì di una soluzione di pianta e di facciata del C., e, fatto il plastico, ottenne l'approvazione del progetto da parte del sovrano, facendolo passare per suo. Il re non accolse le proteste del C., che invocava una totale regia dell'opera architettonica, previo ulteriore studio della progettazione, e il palazzo fu iniziato (posa prima pietra, 9 sett. 1738) e continuato sotto la direzione del solo Medrano (Schipa), associato, come per il teatro S. Carlo, all'imprenditore Angelo Carasale, factotum della corte borbonica. È stato, anzi, a tal proposito, rilevato come "il fatto che esso non fosse ancora compiuto dopo oltre venti anni, e cioè quando, nel 1759 il re partì per la Spagna, e l'incarico per il progetto della reggia di Portici dato all'architetto romano, dimostrano come, in definitiva, quest'ultimo avesse avuto ragione" (Pane).
Nel 1742, infatti, il C. si trovava nuovamente al servizio di Carlo di Borbone, impegnato - in piena indipendenza e fiducia - nella costruzione del palazzo reale di Portici, concluso nel 1759, su suoi disegni e sotto la sua direzione.
Anche in questo caso, i primi lavori per la residenza reale estiva, tra le pendici del Vesuvio ed il mare, erano stati affidati al Medrano, ma il palazzo attuale corrisponde interamente al progetto del C., salvo la trasformazione in cappella, eseguita nel 1759, del corpo di fabbrica inizialmente destinato a teatrino di corte. La moda esterofila dei Borboni indusse a chiamare, per la residenza reale, il C., in luogo dei due prestigiosi architetti interpreti del rococò locale, F. Sanfelice e D. A. Vaccaro, peraltro destinati a influenzare largamente, con la propria opera, l'attività edilizia nella capitale borbonica e negli altri centri del Regno. Singolare è comunque l'episodio, riferito da Pietro Napoli Signorelli, dell'ammirazione del C. di fronte al pregevole teatro Nuovo - la prima sala da spettacolo napoletana - disegnato da Vaccaro (1724), ma purtroppo oggi scomparso. Il C. affermò che l'architetto aveva "fatto nascere il possibile dall'impossibile", alludendo all'abilità con cui era stata ricavata una sala da spettacolo in un piccolo spazio, con cinque ordini di ventisei palchetti ciascuno.
La fabbrica di Portici fu collocata a cavallo della strada regia di Napoli per le Calabrie, nel tratto che, popolandosi nel giro di qualche decennio di ville patrizie, divenne celebre come "miglio d'oro". Il palazzo di Portici è indubbiamente l'opera di maggiore impegno del C., che dovette risolvere complessi problemi, operando su terreno non già libero, bensì occupato da case, ville di privati cittadini, edifici rustici, che furono trasformati o demoliti. Inoltre, il C. adattò il tema del cortile ad una funzione pubblica e privata insieme, risolvendo felicemente, sull'esempio di consimili residenze reali europee, la difficile condizione urbanistica in cui la fabbrica veniva a sorgere. D'altro canto soltanto tale soluzione poteva consentire alla residenza reale quella bipolarità Vesuvio-mare che non è mai presente nelle ville vesuviane coeve, avendo esse il giardino rivolto verso il mare ovvero verso il Vesuvio, a seconda dell'ubicazione rispetto alla strada (per una dettagliata storia del palazzo, vedi Ville..., pp. 193 ss.).
Mentre attendeva alla fabbrica di Portici, il C., nel 1742, diede i disegni per il baldacchino d'argento donato dal re alla basilica di S. Nicola di Bari (Schipa). Nell'anno successivo il C. - indicato come "Regio Ingegnere" - viene compensato con 100 ducati "per conto delle sue fatiche, assistenza, piante, disegni ed accessori fatti e che sta facendo per causa di detto Sedile [di Porto] che si sta costruendo avanti la chiesa di S. Giuseppe Maggiore colla sua direzione ed assistenza" (Mormone). Il documento conferma un'attribuzione del Milizia, già accolta dal Croce, e consente di precisare che l'intervento del Gioffredo (Pane), successivo di qualche decennio, dovette consistere in un restauro o in un completamento.
Resta del sedile di Porto settecentesco - affrescato dal De Mura - un'antica incisione che ne documenta l'aspetto: la fabbrica, a pianta quadrata, aperta da un fornice su ciascuna faccia e coperta a cupola, aderiva ad una tipologia già consacrata da una lunga tradizione, a partire dall'età medievale, ma risultava di notevole eleganza sia per l'impostazione classicistica del blocco forato, nettamente espressa tramite le lesene che incorniciavano i fornici, secondo uno schema trionfale di indubbia efficacia, sia per gli equilibrati rapporti tra lo stilobate, le scalinate e la slanciata fabbrica monumentale, conclusa da una cupola rivestita in rame.
Il Milizia (1785) biasima anche le opere napoletane, pur riconoscendo, a conclusione del suo cenno sull'architetto, che "era peraltro un uomo onesto"; ed aggiunge la notizia che egli "morì in Napoli in età avanzata". Per quanto concerne la data di morte del C., essa sinora non ci è nota, ma deve collocarsi dopo il 1759, anno in cui, sulla base delle carte d'archivio, egli risulta ancora impegnato nei lavori di Portici.
Il C. - che fu maestro di N. Salvi - non fu certo un architetto fortunato, se si considerano le vicende relative al palazzo di Capodimonte e la scomparsa di alcune delle sue opere principali sia in Portogallo sia a Roma. Quanto al palazzo di Portici, passato al demanio nel 1860, esso è stato sistematicamente spogliato nei suoi elementi decorativi interni e di arredo, che costituivano parte integrante della residenza reale. Circa gli aspetti paesistici, alla base della concezione architettonica dell'opera, va rilevato che il rapporto tra il parco ed il mare è stato gravemente compromesso dalla ferrovia costiera Napoli-Portici (1838) e da una seconda linea ferroviaria più recente, la Circumvesuviana, che ha tagliato il parco a monte nel senso della maggiore lunghezza. Si consideri l'usura determinata dalla destinazione universitaria della fabbrica, con l'aggiunta di nuovi corpi, la assoluta mancanza di manutenzione dell'unico parco aperto al pubblico in una fascia territoriale ultracongestionata e si potrà concludere che la maggiore opera del C. è ridotta ormai ad un fantasma, emblematico della degradazione del territorio vesuviano.
Fonti e Bibl.: [V. Giovardi], Notizia del nuovo teatro degli arcadi..., Roma 1727; G. A. Monaldini, Le vite de' più celebri architetti, Roma 1768, pp. 415-418; F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, Bassano 1785, II, p. 251; Id., Dizionario delle belle arti del disegno (1787), Milano 1802, I, p. 138; P. Napoli Signorelli, Gliartisti napoletani... (dall'opera ined. Regno di Fernando IV,adombrato in 3 vol. in contin.delle vicende della cultura delle Sicilie,Arti deldis.), in Napoli nobilissima, n. s., II (1923), p. 13; C. Volkmar Machado, Colleção de Mem. ... (1823), Coimbra 1922, pp. 143, 180; S. Ticozzi, Dizionario degli architetti,scultori…, Milano 1830, I, pp. 266 s.; E. Pistolesi, Descriz. di Roma e suoicontorni, Roma 1841, pp. 243, 416 s.; C. N. Sasso, Storia dei mon. di Napoli e degli architettiche li edificarono,dallo stabilimento della monarchiasino ai nostri giorni, I, Napoli 1856, pp. 367-371; N. Del Pezzo, Siti reali: il palazzo reale di Portici, in Napoli nobilissima, V (1896), pp. 164 s.; F. Viterbo de Sousa, Diccionario historico... dosarchitectos... de Portugal, I, Lisboa 1899, pp. 160162; B. Croce, I Seggi di Napoli, in Napoli nobilissima, n.s., I (1920), p. 17; M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Milano-Roma-Napoli 1923, I, pp. 267-270; II, p. 241; V. Golzio, Artisti romani all'estero: A. C.e V. Mazzoneschi, in Roma, XVI (1938), pp. 464 s.; R. Pane, Architettura dell'età barocca in Napoli, Napoli 1939, p. 203; L'opera del genio ital. all'estero, E.Lavagnino, Gli artisti ital. in Portogallo, Roma 1940, p. 94; Id., L'art baroque auPortugal, in XVIe Congrès internat. d'hist. de l'art,Lisbonne 1941, Lisbonne-Porto 1949, pp. 57-65; A. Schiavo, La Fontana di Trevi e le altre opere di N. Salvi, Roma 1956, ad Indicem;A. De Carvalho, Don João V e a Arte do seu tempo, Lisboa 1962,II, pp. 365 ss.; Ville vesuviane del Settecento, Napoli 1959, ad Indicem;R. Mormone, Documenti per la storia dell'architettura napoletana del Settecento, in Napoli nobilissima, III (1963-64), p. 120; F. Mancini, Scenografia napoletana dell'età barocca, Napoli 1964, pp. 19, 107; J. A. França, Une ville de lumières: la Lisbonne de Pombal, Paris 1965, ad Indicem;P.Portoghesi, Roma barocca..., Roma 1966, pp. 295, 420, 434; R. C. Smith, The Art ofPortugal 1500-1800, New York 1928, pp. 103 s., 234; C. de Azevedo, Solares Portugueses, Lisboa 1969, pp. 359 ss.; L. Vanvitelli, Napoli 1973, ad Indicem;R. dos Santos, Oito séculos dearte portuguesa, II, Lisboa 1965, pp. 237 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, p. 501; Enciclopedia Italiana, VIII, p. 724.