BRAGADIN, Antonio
Del ramo di S. Marina della nobile famiglia veneziana, nacque l'11 febbr. 1511 da Andrea figlio di Alvise procuratore di S. Marco, e da Laura di Daniele Barbaro. Nel febbraio 1533, con altri tredici giovani fra i più in vista della città, costituì una compagnia della Calza, detta dei Cortesi, con la quale celebrò lietamente numerose feste. Il 9 ag. 1538 si sposò con Maria di Giovanni Corner, ma, rimasto ben presto vedovo, nel 1542 passò in seconde nozze con Maria di Alvise Mocenigo, da cui ebbe un figlio - Andrea - nato nel 1547.
Esercitò a lungo la mercatura, secondo le migliori tradizioni della nobiltà veneziana; negli anni 1555 e 1556, attraverso i suoi agenti Giovan Maria Penzini a Tripoli di Siria e Andrea Berengo ad Aleppo, importava seta greggia e spezie ed esportava panni.
Partecipò attivamente alla vita pubblica, ma non - come è stato scritto, confondendolo con un suo omonimo (figlio di Nicolò) -, quale comandante di formazioni navali e nel 1565 provveditore generale a Cipro; né è da identificare con lui quell'Antonio Bragadin che a Lepanto capitanava una delle sei galeazze veneziane, poste, al comando del Duodo, all'avanguardia della flotta cristiana.
Inviato "capitanio" a Brescia il 27 giugno 1568, assunse la carica il 21 novembre e durò nel reggimento diciotto mesi, che nella relazione al Collegio con la data del 1569, ma sicuramente dell'anno successivo, qualificò "lunghi e travagliosi".
È presumibile che gli fossero apparsi tali per colpa della carestia, che si poté tuttavia superare senza danni in virtù delle massicce importazioni di grani forestieri e del soccorso prestato ai poveri della città e del territorio. Altre difficoltà erano insorte per l'imposizione del dazio della macina, nella misura di sei soldi per staio di frumento, considerata molto gravosa. Nessuna inquietudine, invece, ma "infinita consolazione" gli aveva dato l'ufficio della s. Inquisizione, per il fatto che nella zona non c'era "quasi scintilla d'eresia".
Eletto al Consiglio dei dieci il 16 sett. 1571, il 6 ag. 1573, il 21 ag. 1575, fu sostituito il 27 maggio 1577. Il 19 ott. 1574 - col futuro doge Leonardo Donà e con Giovan Francesco Priuli, celebre per il suo piano d'ammortamento del debito pubblico - fu eletto provveditore sopra i Beni comunali, una magistratura istituita allora per la prima volta per disciplinare il regime di quei vasti patrimoni di godimento collettivo; l'attività dell'ufficio fu però alquanto ridotta per il sopraggiungere della peste. Il 26 giugno 1577 entrò a far parte della magistratura straordinaria dei Tre sopra la francazione della Zecca e il 3 dicembre dell'anno seguente gli fu affidato l'Inquisitorato sopra i Segreti, ma il 26 febbr. 1579 - essendo egli frattanto uscito dalla Zonta del Consiglio dei dieci - il suo posto venne occupato da un altro. Il 9 febbr. 1583 fu destinato all'ufficio dei Sopra Monasteri, ma non lo assunse perché il 30 maggio 1579 era stato confermato alla Francazione della Zecca. Nel secondo semestre del 1584 e in quello dell'anno successivo il B. fu savio del Consiglio. Non è facile seguirlo in questo avvicendamento nelle più importanti magistrature, che con tutta probabilità fu in effetti molto più serrato perché, per timore di lasciarci fuorviare dalle omonimie, abbiamo lasciato cadere tutte le notizie di elezioni nelle quali non fosse precisata la paternità.
Fervente cattolico (nel 1556 Andrea Berengo loda che il B. si ritiri a Padova per la settimana santa), lo vediamo sempre schierato dalla parte dei clericali, con i conservatori delle vecchie casate, di sentimenti filospagnoli. Il 20 ag. 1585 conseguì l'altissima dignità di procuratore di S. Marco de Citra, succedendo a Pasquale Cicogna, che era divenuto doge.
Appartiene a questo periodo il parere che insieme con Iacopo Foscarini presentò alla Signoria sull'offerta spagnola dell'appalto in esclusiva del pepe portoghese. Pubblicandolo, F. Stefani lo ha giustamente attribuito alla fine del 1585.
La proposta, che - come ha osservato F. Braudel - non costituiva un colpo di scena, perché era già nell'aria da quattro o cinque anni (e lo stesso B. aveva discusso l'argomento in Collegio fin dal marzo dell'anno precedente, insieme con Vincenzo Morosini e Giovan Francesco Priuli), consisteva nell'acquisto a Lisbona, a un prezzo determinato, di trentamila cantari di pepe l'anno, vale a dire dell'intero contingente destinato alla rivendita in Europa, ciò che significava in pratica il monopolio di tutte le spezie, dato che queste - "per necessità" - tenevano dietro al pepe. I due relatori esaminarono a fondo la questione, in tutti i suoi aspetti e riflessi tanto politici quanto economici, valutando in concreto le prospettive favorevoli, che erano molte e lusinghiere, e le contrarie, alle quali non era impossibile porre rimedio, con una visione delle capacità veneziane e del peso della Repubblica nel quadro internazionale che nel suo realismo racchiude una lezione di prudenza e di saggezza politica della quale in questa circostanza fu forse un errore non tener conto. E non è dato spesso di veder formulata con tanta chiarezza la concezione della nuova struttura assunta dal commercio con i paesi del Levante mediterraneo, dove le spezie, che "già molti anni ormai non vengon, di Sorìa o d'Alessandria", rivestono una parte del tutto secondaria, rimpiazzate da altre merci, come seta e cotone greggi, mentre appare essenziale la corrente delle esportazioni, la quale assicura la vitalità dell'industria veneziana della lana e della seta. Nessuna nostalgia, nel parere, per i tempi nei quali da Venezia le spezie "venivano distribuite in tutte le parti del mondo" se non per sottolineare come la situazione del momento fosse mutata.
Le conclusioni dei due relatori erano favorevoli all'accoglimento, ma l'offerta fu lasciata cadere. Il pepe portoghese non divenne un affare dei mercanti veneziani, ma di un consorzio internazionale del quale facevano parte anche i Welser e i Fugger.
Il 10 giugno 1588 il B. fu eletto provveditore sopra Monasteri, ma neppure questa volta assunse l'incarico perché in quegli stessi giorni era stato destinato all'ufficio, che era molto più importante, di savio del Consiglio.
Mercante, incaricato di alte funzioni pubbliche, il B. incarna l'ideale di una certa concezione di vita, del modo migliore di essere uomo e cittadino, che per le generazioni che si susseguirono a Venezia dal XIV al XVI secolo e forse anche oltre, costituì un modello esemplare. Morì, ottuagenario, il 31 luglio 1591. Al posto di procuratore di S. Marco che egli aveva lasciato vacante venne eletto Leonardo Donà.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria de Comun - Nascite,Libro d'oro, reg. 51/1, c. 24; Ibid., Avog.Comun - Contratti nozze, reg. 143/IV, c. 54v; Ibid., Segret. alle Voci,Magg. Cons., reg. 4, cc. 133v-134 (Capit. Brescia); Ibid., Segret. alle Voci,Senato, reg. 4, c. 79v; reg. 5, cc. 6v-7; Ibid., Segret. alle Voci,Cons. de X et Additio, 1570-1575, cc. 3-15; 1574-1597, cc. 2v-11v, 42v-74; Ibid., M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, pp. 132, 138; M. Sanuto, Diarii, LVII, Venezia 1902, p. 550; LVIII, ibid. 1903, pp. 52, 184; Parere dei clarissimi A. B. e Iacopo Foscarini procuratori di San Marco e savi del consiglio intorno al trattato tra Venezia e Spagna sul traffico del pepe e delle spezie dell'Indie Orientali (1585), a cura di F. Stefani, Venezia 1870; Relazioni di rettori veneti a Brescia durante il secolo XVI, a cura di C. Pasero, Toscolano 1939, pp. 28 s., 112-116; M. Brunetti, Il diario di Leonardo Donà,proc. di S. Marco de Citra, in Archivio veneto, s. 5, XXI (1937), pp. 102 s., U.Tucci, Lettres d'un marchand vénitien,Andrea Berengo, Paris 1957, p. 4 e passim;G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, Venezia 1958, p. 12; F. Seneca, Il doge Leonardo Donà, Padova 1959, pp. 107, 197; F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, Paris 1966, I, p. 507; I. Cervelli, Intorno alla decadenza di Venezia, in Nuova riv. stor., L (1966), pp. 596-642.