LAMBERTI, Anton Maria (più comunemente Antonio)
Nacque a Venezia il 13 febbr. 1757 da Giovan Michele. La famiglia, di agiati possidenti e negozianti di boschi e legnami, era originaria del territorio di Belluno e ascritta alla nobiltà di Feltre, ma da tre generazioni si era stabilita in Venezia e godeva, per privilegio, della cittadinanza originaria veneziana.
Il L. intraprese gli studi giuridici nell'Università di Padova, ma la morte improvvisa del padre lo costrinse a dedicarsi agli affari domestici e all'azienda paterna, in condizioni così precarie che per farvi fronte onoratamente dovette alienare il cospicuo patrimonio familiare. In seguito, per circa un ventennio, il L. fu console marittimo dell'Ordine di Malta presso la Repubblica veneta; da questo gli venne il titolo di cavaliere, con cui talora lo menzionano i contemporanei. Ma tra i relativamente modesti uffici diplomatici rimasero intensi e variati i suoi interessi culturali, che lo spinsero a occuparsi, con la tipica curiosità del "dilettante" settecentesco, di materie scientifiche (tra cui la medicina, cui era incline), e soprattutto a comporre e recitare le eleganti poesie in dialetto veneziano che lo resero celebre e tuttora ne tengono vivo il ricordo.
In un breve profilo autobiografico apparso postumo (Cenni sulla vita d'Anton-Maria Lamberti scritti da lui medesimo, a cura di G. Levi, Venezia 1847) il L. si compiacque di attribuire un certo successo letterario e mondano, che gli arrise fino alla caduta della Serenissima, alle proprie innate "maniere gentili e geniali", alla vivacità e arguzia della conversazione, all'efficacia con cui declamava le proprie poesie vernacole: doti che, a suo dire, piacquero "alle donne universalmente, e massime alle più celebri, colte e sentimentali", presso le quali rispecchiavano e lusingavano l'inflessione patetica di certo estremo Settecento veneziano. Documento e compendio di questa efficace corrispondenza di sensibilità rimane la fortunata barcarola nota, dal verso incipitario, come La biondina in gondoleta ma propriamente intitolata La gondoleta. Musicata forse da Simone Mayr, la canzonetta, in dieci quartine di ottonari, contribuì "a fissare quell'immagine graziosa e un po' sdolcinata con cui si tende a identificare una certa Venezia del passato" (Martignago); tuttavia, anche in ciò che oggi vi appare convenzionale e manierato non manca qualche riflesso di costumi e di emozioni reali, tant'è che nella dama illanguidita con cui il poeta si permette qualche libertà nella gondola-alcova sembra fosse perfettamente riconoscibile la non severa gentildonna Marina Querini Benzon. Né, d'altronde, manca nella poesia del L. qualche "momento grave" (Pirazzo), come nell'Ino alla Morte, "dea teribile" ma anche "Solo conforto De chi fra 'l turbine sospira el porto". Una peculiarità delle poesie del L. è la pubblicazione per lo più in opuscoli d'occasione (cui si riconducono molte rime di omaggio galante a dame nominate o anonime, a cominciare da Isabella Teotochi Albrizzi) e soprattutto in almanacchi quali lo Schieson venezian, nei quali spesso evocava in forma di idillio episodi, sentimenti ed eventi legati a contingenze stagionali. A questo tema, del resto venuto di moda nel Settecento europeo sulla scia del poema The seasons di J. Thomson (1726-30) e dei suoi epigoni immediati, il L. dedicò in specie le Quattro stagioni campestri e quattro cittadinein versi veneziani (Venezia 1802; nuova ed., con note, Milano 1802; Le quattro stagioni campestri e cittadine, a cura di F. Martignago, Vicenza 1991), polimetro in quattro parti corrispondenti alle stagioni (cominciando dall'inverno), ciascuna suddivisa in un dittico dove ogni stagione è vista dapprima nei suoi aspetti campestri, poi nelle occorrenze in città. Si tratta, in un certo senso, di "paesaggi con figure", agresti e urbani: e qualche figura (tra cui la Nina vagheggiata in idilli campestri e una giovane signora morbinosa che esplora infaticabilmente i diporti delle stagioni cittadine) vi ha più spicco di altre. Ma protagonisti reali sono i luoghi e le atmosfere, non di rado colti con fine senso dell'ora e con suggestivo abbandono ai piaceri e alle emozioni proprie di ogni tempo dell'anno, in una dimensione temperatamente edonistica. Il polimetro, ancora assai godibile, è anche interessante perché ne emergono con perspicuità i caratteri e le funzioni del dialetto nella poesia del Lamberti. M. Cesarotti, in una nota del Saggio sulla filosofia delle lingue (ed. 1800) ne dava una valutazione altamente positiva, affermando che "non solo nei soggetti familiari e scherzevoli, ma quel che non si sarebbe così facilmente creduto, anche nei toccanti, nei delicati, e nei filosofici [il L.] portò il suo idioma vernacolo a una tal eccellenza poetica che non teme il confronto dei poeti più celebri delle lingue nobili, e ci fa sentire a suo grado Anacreonte, Petrarca, e La Fontaine" (Cesarotti). Questo apprezzamento poco meno che entusiastico trova una ragion d'essere nella natura in certo modo rassicurante del dialetto adottato dal Lamberti. Non era suo proposito aderire alla realtà con uno strumento linguistico che ne rendesse, senza i pudori della lingua colta, le crudezze e gli eccessi. L'oltranza sconveniente di temi e di espressioni che si concedeva alla poesia dialettale dal Baffo al Buratti e poi, per esempio, al Porta e al Belli, è del tutto assente dalla sua, che si accorda al più qualche temperata malizia galante ma per istituto predilige soggetti e intonazioni "toccanti" e "delicati" (per usare le caratterizzazioni del Cesarotti), piegandovi il dialetto elegantemente depurato della civile conversazione. E alla civile conversazione, per l'appunto, il L. destinava molto spesso i suoi versi, declamati in società e diffusi in copie manoscritte piuttosto che per le vie ordinarie della stampa, e solo tardi e parzialmente raccolti nei volumi collettanei di Poesie. Un'efficace testimonianza di questa circolazione per dir così amichevole e privata dei parti del L. rimane, per esempio, nell'anacreontica di I. Vittorelli, Alla ornatissima signora Elisabetta Parolini mandandole una satira composta da un poeta veneziano egregiamente in quel dialetto, e che era molto ritroso a concederla (Poesie, a cura di A. Simioni, Bari 1911, pp. 126-128). D'altronde, una conferma della riluttanza a concepire la poesia vernacola come esito di un'istanza realistica (cioè della rinuncia del L. a cercare attraverso il dialetto una più fedele rappresentazione della realtà popolare) si ottiene osservando che alcuni suoi testi di maggiore impegno e, non di rado, di maggiore eleganza stilistica sono in effetti traduzioni o rielaborazioni di poesie altrui originariamente composte in diversa lingua o diverso dialetto. Tale è il caso soprattutto della pregevole traduzione in veneziano di molte poesie siciliane di G. Meli (Poesie siciliane… trasportate in versi veneziani, Belluno 1818; Fables de Gritti, chansons et apologues de Lamberti [ma sono traduzioni dal Meli], Padoue 1819). Ma il L. tradusse anche da vari autori stranieri: tra i risultati più felici in quest'ambito può annoverarsi per esempio la canzonetta El ti e 'l vu, musicale rielaborazione vernacola di una Épître di Voltaire "connue sous le nom des Vous et des Nous".
Alla fine della Repubblica di Venezia (12 maggio 1797) e nei pochi mesi del governo democratico successivo il L., legato all'antico regime non tanto da vincoli politici o ideologici quanto da una forte e tutta soggettiva percezione della presunta douceur de vivre che esso favoriva, mantenne un atteggiamento cautamente neutrale. Ma in cuor suo giudicava che i democratici filofrancesi del 1797 e la riunione del Veneto al Regno d'Italia tra 1806 e 1814 fossero responsabili di una ingiusta soppressione del mondo in cui si era riconosciuto e al quale si rivolgeva con l'atteggiamento intensamente nostalgico che avrebbe ispirato la composizione, cui attese fin verso il 1828, delle Memorie degli ultimi cinquant'anni della Repubblica di Venezia, una vasta opera storica in lingua comune. Questi sentimenti non gli avevano tuttavia impedito di celebrare Napoleone in una Visione fatidica in dialetto veneziano in occasione del fausto arrivo in Venezia dell'augustissimo ed altissimo nostro imperatore e re Napoleone Primo il Massimo (Venezia 1807). Nelle Memorie degli ultimi cinquant'anni della Repubblica di Venezia, cominciate durante la Restaurazione e redatte fin verso il 1828, terminus ante quem dei riferimenti cronologici interni, il L. compare in tutt'altra veste. Tuttora inedite salvo poche pagine, se ne conserva un apografo in Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. VII, 1454-1456 (=9347-9349): dell'originale, che testimonianze coeve descrivono come un esemplare di redazione piuttosto disordinato, si perdono le tracce poco dopo la metà dell'Ottocento.
Nella stesura giunta fino a noi le Memorie appaiono divise in due parti, rispettivamente di undici e cinque capitoli, ma con intermissione di note ed excursus che mostrano evidenti i caratteri di un lavoro non compiutamente rifinito, disuguale nelle proporzioni nonché incerto e farraginoso nella struttura ancora provvisoria. Assunto principale del L. è che la Serenissima, nei cinquant'anni che precedettero la sua fine, era ancora prospera e vitale sotto ogni aspetto civile, economico, militare e culturale, e sarebbe caduta non per senescenza e fatale inadeguatezza al nuovo corso dei tempi ma per violenza e inganno dei Francesi e dei loro fautori interni. A dimostrare questa tesi il L. adduce una minuziosa analisi della fisionomia sociale, politica, giuridica, religiosa del cessato Dominio; è un'analisi che, nonostante la percettibile intonazione nostalgica e apologetica, non manca di utili notizie anche statistiche, di osservazioni acute e di giudiziose rivendicazioni circa aspetti della civiltà veneziana che anche nell'ultimo cinquantennio della Serenissima si imponevano per novità e prestigio europeo. Tipici di questa impostazione sono, per esempio, il cap. I della parte seconda, che tratta Delle scienze, lettere ed arti e della lingua, ampio e non inutile repertorio di personaggi veneziani (in senso lato: comprende anche i nativi dell'altra sponda adriatica e delle isole Ionie) illustri per meriti artistici e scientifici; o, sempre nella seconda parte, il cap. II, Della marina, del commercio e della ricchezza di Venezia e dello Stato, che delinea un quadro sostanzialmente positivo, offuscato, secondo il L., soltanto dalle ruberie francesi e dai disagi del blocco continentale, ma rimasto sostanzialmente sano e in grado di riprendersi "sotto il dominio dell'Augusto Monarca", cioè dell'imperatore d'Austria. Comunque si voglia giudicare l'ipotesi lambertiana di una vigoria ancora quasi intatta della Serenissima sullo scorcio del Settecento - ma qualche decennio dopo essa sarebbe stata sostanzialmente ripresa da storici veneziani di tutto rispetto, come per esempio G. Dandolo in La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni (Venezia 1855-57) - sta di fatto che l'immagine tutta in positivo di una civiltà ingiustamente troncata ripropone in certe pregevoli pagine delle Memorie i costumi e i diporti di quella stessa società che il L. aveva idealizzato nei suoi eleganti versi dialettali.
Ragguagli coevi menzionano tra le opere del L. anche un romanzo, non pubblicato e oggi irreperibile, che, secondo l'anonimo prefatore dell'edizione postuma della Nuova collezione di poesie scritte in dialetto veneziano del L. (Treviso 1835), era "di argomento e scopo morale pel miglior uso da farsi delle ricchezze dietro gli esempi di un giudizioso cavaliere". Altre opere finora non menzionate sono: El ritrato de Filia, s.l. 1791; Sie fiabe veneziane, Venezia s.d. (forse 1796); Collezione delle migliori opere scritte in dialetto veneziano, a cura di B. Gamba, I-III, ibid. 1817; Proverbi veneziani… con l'aggiunta di quattro nuove stagioni ed altre poesie vernacole, ibid. 1824; Della marina, del commercio e della ricchezza di Venezia e dello Stato, a cura di G. Secrétant, ibid. 1903 (frammento delle Memorie degli ultimi cinquant'anni); Il fiore della lirica veneziana, a cura di M.T. Dazzi, II, Vicenza 1956, pp. 411-513; Ceti e classi nel Settecento a Venezia, a cura di M.T. Dazzi, Bologna 1959 (frammento delle Memorie degli ultimi cinquant'anni; alle pp. XXXIX-XLI la bibliografia degli scritti del L. editi a quella data); L. Muraro, Memorie degli ultimi cinquant'anni della Repubblica di Venezia. Edizione integrale, tesi di laurea, Università di Padova, facoltà di lettere, a.a. 1986-87; Canzonette e idilli, a cura di M.A. Pirazzo, Padova 2002 (comprende una pregevole Nota bibliografica e vi sono ristampati alle pp. 35-37 i Cenni sulla vita d'Anton-Maria Lamberti scritti da lui medesimo).
Con la Restaurazione il L., pur non attribuendo al dominio austriaco vere responsabilità nel tracollo veneziano, e anzi riconoscendolo legittimo erede della Repubblica, non seppe accettare serenamente (come attestano proprio le Memorie degli ultimi cinquant'anni) il fatale ridimensionamento di Venezia e il declino della civiltà e della società che vi avevano brillato fino all'ultimo e che avevano ispirato la sua facile vena. Deluso e senza risorse, nonostante la fortuna ancora vegeta delle poesie in dialetto che proprio allora cominciarono a essere sistematicamente raccolte in volume, preferì ritirarsi a Belluno, dove fu protocollista presso il locale tribunale.
Il L. morì a Belluno il 28 sett. 1832.
Fonti e Bibl.: Molte fra le edizioni ottocentesche e moderne delle opere del L. recano introduzioni con cenni biografici e interpretazioni critiche. Inoltre: M. Cesarotti, Opere, I, Pisa 1800, p. 23; E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, I, Venezia 1834, pp. 406 s. (B. Gamba); G. Nuvoli, Le canzonette di A.M. L., in Poesia, IV (1991), 43, pp. 35-42; G. Da Pozzo, A. L. traduttore del Meli, in Da Malebolge alla Senna. Studi letterari in onore di Giorgio Santangelo, Palermo 1993, pp. 133-158; M.A. Pirazzo, Un momento "grave" nella poesia di A. L., in Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, cl. di scienze morali, lettere ed arti, CLIII (1995), pp. 323-339; F. Martignago, La poesia delle stagioni. Tempo e sensibilità nel Settecento, Venezia 1999, ad indicem.