GRASSI, Annibale
Nacque a Bologna nel 1537, figlio del senatore Giovanni Antonio (morto nel 1562) e di Diana di Carlo Grati.
La sua famiglia, assurta a notevole potenza già nella prima metà del Cinquecento, era entrata in una fase particolarmente fortunata. Grazie alla costante protezione dei pontefici, infatti, i membri laici erano costantemente presenti nelle magistrature bolognesi, e i membri ecclesiastici potevano ottenere senza difficoltà vescovati e cariche di qualche rilievo.
Dopo aver trascorso l'infanzia a Bologna il G. prese la laurea in utroque iure e, ancora giovanissimo, ottenne una cattedra nello Studio bolognese, dove lesse diritto dal 1553-54 al 1562-63 e poi ancora dal 1565-66 al 1570-71. Intorno al 1560 il G. assunse la carica di giudice nel tribunale del Foro dei mercanti, che tenne fin verso la metà degli anni '60, quando mutò profondamente le sue prospettive di vita. Nel 1567, infatti, il G. decise di abbracciare la carriera ecclesiastica, seguendo l'esempio dei suoi fratelli maggiori Achille e Carlo, che avevano alti incarichi alla corte pontificia, e ottenne la carica di arciprete della cattedrale di Bologna. Gli altri due fratelli, Paride e Gaspero, rimasero invece nello stato laicale.
Poco dopo il G. si trasferì a Roma, dove divenne referendario di Segnatura e luogotenente del camerlengo Guido Ascanio Sforza di Santafiora.
All'inizio la carriera curiale del G. era all'ombra del fratello maggiore Carlo, che in questa fase era già divenuto un esponente di spicco in Curia. Nei primi anni del suo soggiorno romano il G. si limitò a svolgere un'oscura attività amministrativa nell'ambito del camerlengato. In seguito, all'inizio degli anni Settanta del Cinquecento, egli cominciò ad assumere un ruolo di qualche rilievo nella diplomazia pontificia.
Nel 1571 il G. fece parte del seguito del nipote di Pio V, il cardinale Michele Bonelli, inviato presso i sovrani di Spagna e Portogallo allo scopo di promuovere il mantenimento e l'allargamento della grande alleanza antiturca che l'anno precedente aveva vinto a Lepanto e di risolvere i conflitti tra autorità ecclesiastica e autorità civile in Italia.
Si trattava di una missione diplomatica particolarmente nutrita, che comprendeva numerosi e autorevoli prelati, tra i quali il generale della Compagnia di Gesù, Francisco Borja, Ippolito Aldobrandini (poi papa Clemente VIII) e i futuri cardinali Alessandro Riario e Matteo Contarelli. Nell'ambito della delegazione pontificia al G. fu assegnato il compito di trattare con i ministri spagnoli la composizione di alcune vertenze tra l'arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, e il governatore di Milano.
Nel complesso, i risultati delle trattative avviate da Bonelli furono assai modesti. Pur ricevendo onorevolmente la missione, Filippo II adottò una tattica dilatoria, accettando di aprire vere trattative solo su alcune questioni di dettaglio. Anche il G. fu in qualche modo coinvolto nel fallimento della missione e i suoi contatti con i ministri regi furono inevitabilmente segnati dalla scarsa disponibilità degli Spagnoli a prendere impegni precisi.
La carriera del G. conobbe un deciso scatto con il pontificato del bolognese Gregorio XIII (1572-85), che si dimostrò assai munifico con i suoi concittadini. Già all'indomani della sua elezione, il nuovo pontefice nominò il G. consultore del S. Uffizio e uditore delle Contradette. Nel 1573, inoltre, il G. fu designato nunzio straordinario a Madrid, ufficialmente con il compito di congratularsi con Filippo II per la nascita dell'erede al trono. In realtà, il G. doveva soprattutto discutere con i ministri spagnoli della situazione politica genovese e cercare di comporre i conflitti giurisdizionali che divampavano nei domini spagnoli in Italia, e in particolare quello, assai grave, apertosi a Milano tra l'arcivescovo e il governatore.
Le tensioni tra i ministri spagnoli e Borromeo, che già nel 1569 era stato fatto segno di un grave attentato, non erano certo una novità nel panorama politico dell'Italia della Controriforma. Tuttavia tra il 1572 e il 1573 il nuovo governatore (Luis de Requesens, succeduto al duca d'Alburquerque) e l'arcivescovo avevano mantenuto rapporti cordiali. La situazione cambiò bruscamente nell'estate del 1573, quando una vicenda sostanzialmente minore - un processo tra un laico e un monastero - fece esplodere un grave conflitto, che verteva principalmente sul diritto dell'arcivescovo a mantenere una propria forza di polizia armata. Quando i magistrati spagnoli notificarono a Borromeo una disposizione che limitava fortemente il diritto dei ministri arcivescovili a portare armi, l'arcivescovo reagì scomunicando il governatore, che a sua volta intraprese una serie di atti violentemente intimidatori, tra cui l'occupazione militare dei feudi dei Borromeo. La questione si trasformò così da un conflitto locale a un elemento importante delle relazioni ispano-pontificie.
Il papa Gregorio XIII, proprio mentre inviava il G. in Spagna, affidò la vertenza a una congregazione per la giurisdizione ecclesiastica, forse con la segreta aspirazione di riesaminare globalmente i rapporti tra potere ecclesiastico e potere civile nei domini spagnoli. Del resto, anche nel Regno di Napoli i conflitti tra vescovi e magistrature laiche si erano riacutizzati tra il 1572 e il 1573, tanto che il viceré era giunto a sequestrare i beni dell'arcivescovo di Napoli e a espellere dalla città il suo vicario.
Il G. giunse a Madrid nel novembre 1573 e adempì alla sua missione con un relativo successo, ottenendo l'invio a Roma di due esperti giuristi, Pedro de Ávila e Francisco de Vera, allo scopo di risolvere tutte le questioni pendenti, dalle vertenze giurisdizionali di Milano a quelle della "Monarchia Sicula".
Non era molto, tanto più che già nei mesi precedenti Filippo II aveva maturato la decisione di spedire a Roma degli inviati straordinari, ma era probabilmente il massimo che si poteva ottenere in una fase così tesa dei rapporti tra potere ecclesiastico e potere civile. Le trattative, però, si trascinarono per anni senza trovare uno sbocco e la missione del G. finì per rimanere un semplice episodio di una vicenda pluridecennale.
Tornato a Roma nel 1574, il G. fu destinato come nunzio a Enrico di Valois, appena eletto re di Polonia, ma non svolse la missione, a causa dell'improvviso ritorno in Francia del sovrano a seguito della morte del re Carlo IX. Come premio di tante fatiche il papa conferì al G. la prestigiosa carica di rettore dell'Università romana, che tenne solo per pochi mesi. Il 14 luglio 1575, infatti, il G. fu nominato vescovo di Faenza e lasciò Roma per alcuni anni.
L'allontanamento del G. dalla corte non fu una punizione. Probabilmente, il papa scelse il G. con l'intento di affidare la diocesi faentina a un prelato esperto, capace di mantenere sotto controllo una situazione politico-religiosa attraversata da tensioni profonde. Solo pochi anni prima, nel 1569-70, il Papato aveva realizzato una violenta repressione delle tendenze eterodosse diffuse a Faenza, ma, nonostante gli sforzi del predecessore del G., Giovambattista Sighicelli, restava ancora da costruire una rete di strutture capaci di incanalare la vita religiosa faentina lungo le nuove direttrici controriformistiche.
Giunto a Faenza nel dicembre 1575, il G. avviò un governo pastorale rigoroso e pienamente in sintonia con gli ideali controriformistici. Inizialmente si dedicò soprattutto a completare il seminario, già iniziato dal suo predecessore, e già nel luglio 1576 poté inaugurarlo. In seguito si occupò di adeguare l'arredo delle chiese alle indicazioni del concilio di Trento e nel 1581 riconsacrò la cattedrale. Assai più difficile si rivelò invece la riorganizzazione della struttura beneficiale della diocesi. Nonostante gli intensi sforzi, il G. non riuscì a comporre le inveterate controversie relative alla collazione dei benefici ecclesiastici che contrapponevano l'autorità vescovile ai canonici del duomo. Il contrasto, infatti, ebbe termine solo in virtù di una bolla di Clemente VIII, nel 1594. Maggiore successo incontrò l'opera di disciplinamento religioso promossa dal G. anche attraverso la frequente celebrazione di sinodi diocesani. Nel giro di pochi anni i fermenti eterodossi non rimasero che uno sbiadito ricordo, anche grazie all'appoggio del patriziato locale, che non lesinò impegno e spese per sostenere l'azione del Grassi.
L'esperienza pastorale del G. ebbe sostanzialmente termine nel 1581, anche se egli mantenne il vescovato fino al 1585, anno in cui il G. fu richiamato a Roma e nominato visitatore apostolico della provincia di Campagna e Marittima, con il compito di promuovere l'applicazione dei decreti tridentini.
L'azione del G., non adeguatamente studiata, produsse una consistente riorganizzazione delle strutture ecclesiastiche locali, e in particolare degli edifici di culto, ma non influì molto sulle forme della vita religiosa. Nel 1581 il G. fu inoltre nominato alla carica di vicelegato di Romagna, che esercitò fino al 1583, sostituendo Guido Ferreri, che non risiedeva nella provincia.
Le indubbie capacità amministrative del G. fecero sì che ancora negli anni successivi egli continuasse ad accumulare cariche politiche e amministrative, pur se la sua carriera proseguì in maniera discontinua anche a causa della fine degli anni, a lui favorevoli, del pontificato di Gregorio XIII. Nel 1585 il G. rinunciò al vescovato di Faenza in favore del nipote Giovanni Antonio, riservandosi una pensione, e riprese il suo posto a corte. Nello stesso anno Sisto V, che conosceva bene le capacità del G., lo nominò chierico di Camera e visitatore della Marca d'Ancona, conferendogli l'incarico di controllare l'amministrazione delle Comunità marchigiane.
L'azione del G. si inscriveva in un più ampio disegno di rafforzamento del controllo del potere centrale sulle autonomie locali e contribuì a realizzare un parziale risanamento delle finanze delle Comunità marchigiane, che tuttavia non resse alla crisi agricola del 1590-92.
Tornato a Roma, il G. rimase per alcuni anni piuttosto appartato, finché non ottenne, il 27 ag. 1588, la prestigiosa nunziatura di Spagna, una carica di estrema delicatezza, che poteva facilmente preludere al cardinalato. La nomina del G. avvenne in un momento di notevole tensione nei rapporti tra Papato e monarchia spagnola e non fu molto ben vista a Madrid. Gli ambienti di corte, infatti, ritenevano il G. troppo anziano e tendenzialmente ostile agli interessi spagnoli. La nunziatura del G. fu tuttavia molto breve e non incise granché nei rapporti tra Filippo II e Sisto V, anche perché le tensioni più acute non si verificarono a Madrid, ma a Roma, dove l'ambasciatore Enrico de Guzmán non perdeva occasione per attuare atti di provocazione nei confronti del pontefice. La nunziatura del G. non fu dunque segnata da gravi problemi diplomatici, ma piuttosto da frequenti attriti e tensioni relative alle questioni giurisdizionali. Tuttavia, nella prima metà del 1590 i rapporti ispano-pontifici peggiorarono sensibilmente, a causa dell'azione pacificatrice della diplomazia pontificia nella guerra civile che dilaniava la Francia.
Nel giorno dell'Ascensione un gesuita madrileno arrivò a tenere una predica oltraggiosa nei confronti del papa, accusandolo di sostenere occultamente il calvinista Enrico di Navarra. Di fronte a un tale episodio, il G. fu costretto ad aprire un formale processo, ma non vide la conclusione della vicenda, poiché morì a Madrid il 21 giugno 1590.
Opere. Il G. fu un trattatista politico di qualche valore, ma le sue opere circolarono manoscritte e non conobbero grande fortuna dopo la sua morte. Attualmente si conosce una sola opera edita, il trattatello De iurisdictione universali summi pontificis in temporalibus, pubblicato in G.T. Roccaberti, Bibliotheca maxima pontificia, IV, Romae 1697, pp. 21-40. Il curatore riferisce dell'esistenza di due copie manoscritte del trattato, conservate a Roma presso la biblioteca dei domenicani di S. Maria sopra Minerva e presso la biblioteca di Marcello Severoli, un'importante biblioteca privata che finì venduta all'asta all'inizio del Settecento. Il trattato fu composto nel corso del pontificato di Pio V, allo scopo di difendere il diritto del pontefice di nominare granduca Cosimo I de' Medici. Il G. vi discute ampiamente il tema della potestà dei pontefici sugli Stati temporali, affrontando diffusamente le opinioni dei canonisti e dei giuristi coevi e antichi. Le sue conclusioni si collocano nel solco delle più estremistiche teorie sul potere papale e riconoscono al pontefice un pieno diritto di disporre degli Stati temporali. Si tratta dunque di un testo che dimostra, allo stesso tempo, una buona conoscenza della letteratura giuridica e teologica coeva e la piena adesione alle più rigide dottrine politiche controriformistiche, lontane dalle più sfumate elaborazioni di R. Bellarmino. Resta invece incerta l'attribuzione al G. di un trattato sulla giurisdizione dei vescovi di cui già Fantuzzi (p. 241) non era in grado di fornire referenze bibliografiche precise.
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