BORDA, Andrea
Nato a Pavia nel 1767, fratello minore di Siro, vestì in età giovanile l'abito domenicano trascorrendo il noviziato nel convento di Barlassina, fino a quando, divenuto sacerdote, passò in quello delle Grazie a Milano. Risale a questo primo periodo di studi, compiuto nelle scuole dell'Ordine, lo straordinario interesse da lui portato all'erudizione e alla letteratura latina, mentre gli importanti avvenimenti che si svolgevano nell'Italia padana alla fine del secolo gli fecero momentaneamente abbracciare gli ideali di un rinnovamento politico. Quando, però, il trattato di Campoformio infranse le promesse di libertà formulate nel 1796 dalle armate repubblicane, il B. volse inprofonda avversione la simpatia per il governo francese e per la sua politica in Italia, nutrendo poi per il Bonaparte un odio profondo e aderendo, dopo la scomparsa dell'imperatore, al programma della restaurazione.
Il Caffi ci informa che, durante il periodo francese, la sua corrispondenza con una monaca, in cui sfogava il proprio risentimento per la dominazione napoleonica, fu intercettata dalle autorità di polizia. Imprigionato, poté riottenere la libertà soltanto per una serie di interventi dell'Ordine domenicano. Fu tuttavia allontanato provvisoriamente da Milano e inviato prima a Lodi, poi a Como, donde ottenne di far ritorno nella capitale lombarda in cambio della promessa di un totale disinteresse per la politica. Se però la legge del silenzio fu ufficialmente osservata dal B., non rimangono dubbi sui sentimenti che il domenicano dové nutrire fino al 1814: ne fornì già una prova nel 1895 Giovanni Fiorani pubblicando una lettera-relazione del B. indirizzata all'amico Giovan Battista Gallotta, in cui si esponevano i tragici avvenimenti verificatisi a Milano il 20 aprile del 1814. Ostilissimo al partito francese che, sotto la guida del duca di Lodi e del ministro Prina, tentò di assicurare la corona d'Italia ad Eugenio Beauharnais, egli applaude alla fazione capeggiata da Carlo Verri, che riuscì a organizzare una rivolta popolare contro il Beauharnais conclusa con l'assassinio del Prina.
Dopo la disfatta del partito filofrancese e la definitiva sconfitta di Napoleone, il B., divenuto epigrafista ufficiale del Comune di Milano, non rifiutò i propri servigi ai nuovi governanti dettando iscrizioni e celebrando personaggi di dichiarata tendenza austriacante (dettò, fra le altre, l'epigrafe di Vincenzo Monti). Trascorse gli ultimi anni della sua vita interamente assorbito da questo tipo di attività ufficiale che gli procurò notevoli vantaggi economici e una buona reputazione letteraria. Si spense a Milano il 7 luglio 1835.
L'attività letteraria del B. fu sempre limitata a quella di epigrafista, per la quale il domenicano poté valersi di una buona conoscenza della latinità. In questo ambito, anzi, egli è rimasto famoso per una sorta di purismo linguistico trasferito al latino che gli faceva scartare dal proprio vocabolario le neoformazioni umanistiche, consigliandogli il ripristino di una terminologia classica, venata semmai di arcaismi (quasi esclusivamente grafici) di cui egli andava orgogliosissimo, reputandosi fra i contemporanei un vero castigatore della barbarie imperversante nell'uso della lingua latina. La sua produzione si inaugura nel 1811con la pubblicazione a Verona di una Lettera sopra una certa lapide di Muciano scoperta in quel tempo nella città veneta. Le sue iscrizioni latine cominciarono ad essere divulgate con la stampa del 1816per i funerali del Melzi, poi per quelli della contessa di Soncino (1817), del marchese di Soncino (1818), di Carlo Borromeo (1820), di Carlotta Gonzaga (1823). In questo stesso anno vide la luce a Milano l'opera maggiore del B. intitolata Fasciculum inscriptionum adiectis commentariis: una silloge molto estesa di iscrizioni latine valevoli per ogni circostanza pubblica e privata prevista dalla tradizione di tale genere letterario, ma soprattutto capace di mettere in evidenza la sapienza antiquaria dell'autore, quella estrema perizia nel maneggiare il latino lapidario che fa apparire i suoi componimenti come ben congegnate contraffazioni classiche.
Dopo il Fasciculum il B.proseguì nella pubblicazione sporadica delle epigrafi più riuscite: nel 1823 ne fece stampare una per conferimento del titolo di cavaliere al professor Scarpa di Pavia; iscrizioni funebri furono pubblicate nel 1824 per il fratello Siro e per la moglie Angela Robecchi, nel 1826 per Antonio Battaglia, nel 1828 per il Monti. Ci rimangono ancora a stampa alcune Dissertazioni di argomento letterario (Milano 1827) e una Lettera, pubblicata nello stesso anno, intorno alle Osservazioni di Francesco Antolini fatte ai commentatori Drakenbroch e Lemaire nel suo Tito Livio illustrato. Un piccolo manipolo di iscrizioni messe insieme nel 1825 rimase inedito: di queste il Caffi pubblicò qualche specimen nella nota biografica dedicata al Borda.
Oggi si tende, però, a valutare la sua personalità, più che per la produzione di epigrafi, per la corrispondenza privata che egli tenne assiduamente con G. B. Gallotta di San Colombano durante gli anni della dominazione francese in Italia e nel periodo immediatamente successivo alla disfatta di Napoleone. Il B. si rivela un osservatore acuto della realtà, anche se talvolta non bene informato e spesso fuorviato da un retto giudizio politico a causa del suo acceso antibonapartismo: sì che questa corrispondenza ha un valore non tanto in vista di una ricostruzione storica, quanto per saggiare i riflessi che in certa sfera dell'opinione pubblica provocarono gli avvenimenti del 1814, per comprendere i particolari di un quadro storico più che per rintracciarne le generali linee di tendenza.
In questi limiti possiamo intendere i giudizi del B., contenuti in una lettera del 9 marzo 1814, sulle previsioni disfattistiche che investivano l'armata napoleonica, oppure la diceria sul Bonaparte espressa in una lettera del 14 aprile: "È uscito da Parigi un ritratto di Napoleone avente sul cappellino un'aquila prussiana che lo adunca, con la spiegazione che Blücher lo ha sempre tenuto d'occhio e gli fu ognora addosso. La faccia è seminata di cadaveri fatti dalla di lui ambizione, il colletto è rosso per indicare i fiumi di sangue che fece versare, le orecchie sono corrose da mosche, gli ordini tela di ragno, ecc.". Talvolta il suo giudizio si colora di una particolare tonalità partigiana, come quando nella citata relazione sui moti che portarono all'uccisione del Prina (lettera del 20 aprile 1814) elogia apertamente il più ostinato avversario del Beauharnais: "Ma, siccome il senatore Verri in causa di poca salute non andò mai alle sedute del senato quando si trattava di cose da poco, né fu mai solito a dire 'amen' nel Consiglio di Stato, il perché, a torselo via lo stesso Eugenio lo fece far senatore, così mentre tutti tacevano alla proposta che poteva decidere dell'onor nazionale, egli prese la parola, e declamò un'ora e mezza contro la mozione e fu poi seguito da Dandolo, da Castioni, da Guicciardi, da Mengotti, insomma da 32 senatori, non restando che 4 a favore della mozione del vice-re".
Nella stessa lettera viene descritta particolareggiatamente la rivolta popolare contro Eugenio Beauharnais, l'eccidio del Prina, i saccheggi, l'esasperazione della folla, di cui il B. deplora gli eccessi, fermo restando il giudizio positivo su chi ha organizzato l'azione di piazza per salvaguardare il buon nome italiano: "Mentre queste cose agitavansi in senato, la città era in un orribile orgasmo. In teatro si gridava forte contro il senato, e si voleva correre ad abbruciare l'adunanza... Quando però si seppe che il Verri alzò per primo la voce un grido universale di ammirazione echeggiò da ogni banda. Tutti lo guardavano come il salvatore della patria... Giammai la nazione italiana ha dimostrato meglio la sua volontà". E più oltre: "Che bestia feroce è il popolo irritato nella sua lunga pazienza... Colle teorie succhiate alla lettura degli antichi e moderni sono in grado di valutare le cose nel giusto loro prezzo. Per esempio l'avvenimento che più mi bea l'anima è quello al quale altri non pon mente; io parlo della rivoluzione qui seguita e preparata da un mese in casa Fagnani con tanta segretezza. Machiavelli ha detto che nelle congiure, se pochi, non sono atti a condurle a fine, se molti si scoprono. Nulla di ciò è avvenuto. Più, le rivoluzioni hanno bisogno di forza, questa sta nella massa del popolo, ma queste masse formano un torrente che non si può infrenare. Quale onore per gli italiani in faccia alla posterità, una rivoluzione condotta fino a quel punto e poi arrestata dove si voleval". La pagina del letterato si conclude ovviamente con il ricorso al segretario fiorentino e nell'illusione di aver ancora una una volta imbrigliato la storia in un ordine intellettuale.
Bibl.: E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri..., II, Venezia 1835, p. 117; M. Caffi, Di A. B. da Pavia,frate domenicano,insigne epigrafista latino, in Arch. storico lombardo, s. 2, VI(1889), pp. 81-91; G. Fiorani, L'eccidio del ministro Prina, in Rendiconti del r. Ist. lombardo di scienze e lettere, s. 2, XXVIII (1895), pp. 422-436; G. Gallavresi, Il carteggio intimo di A. B., in Arch. storico lombardo, s.5, XLVII (1920), pp. 482-540.