BIRAGO, Andrea
Appartenente ad una nobile ed antica famiglia, nacque a Milano, probabilmente nell'ultimo decennio del secolo XIV, da Mafiolo, uno dei personaggi più rappresentativi della corte milanese; ignoriamo il nome e il casato della madre. Grazie all'influenza del padre, il B. dovette entrare per tempo al servizio del duca Filippo Maria Visconti, iniziando così quella sua fortunata carriera di gentiluomo di corte, che doveva portarlo ad una posizione di primo piano sulla scena politica milanese e ad una invidiabile potenza finanziaria. Assai difficile delineare, nonché la storia della sua vita familiare e privata, le vicende stesse della sua carriera politica prima e dopo la morte dell'ultimo dei Visconti. Tra i camerlenghi di Filippo Maria già nel 1426, uomo di fiducia nell'amministrazione dei beni patrimoniali e demaniali del duca (tra il 1426 e il 1441 oltre trenta provvedimenti amministrativi, regolarmente registrati dalla cancelleria ducale, furono presi "relatione" o "ex impositione Andree de Birago"), consigliere ducale nel 1441 (fu nominato a questo importante ufficio tra la seconda metà di agosto e la fine di ottobre di quell'anno), autorevole esponente del partito sforzesco a Milano e ammiratore egli stesso del valente condottiero genero di Filippo Maria (e questi si servì spesso del B. come di un intermediario fra sé ed il genero: così nel 1447, quando cercò di ottenere, per il suo tramite, una dilazione per il pagamento degli stipendi alle milizie sforzesche), il suo nome si incontra tuttavia raramente nelle pagine dei cronisti contemporanei. E nei documenti pubblici relativi ad avvenimenti politici anche di notevole importanza - come, ad esempio, quello del 17 ag. 1441, con cui Filippo Maria nominava lo Sforza arbitro della vertenza con Venezia - egli compare sempre come semplice testimone, in una posizione, dunque, in apparenza del tutto marginale e secondaria, che non ci permette in ogni caso di valutare esattamente, col significato della sua presenza, il valore del suo contributo nell'ambito dell'evento in particolare e, più in generale, di intendere il peso della sua influenza politica negli affari del ducato. Peso e influenza, tuttavia, che dovettero essere tutt'altro che indifferenti, a giudicare dai privilegi e dagli onori di cui il B. fu fatto segno da parte di Filippo Maria Visconti prima, e di Francesco Sforza poi, e dalle ricompense che egli ricevette dall'uno e dall'altro in ringraziamento dei suoi servigi. Nel 1434 il duca Filippo Maria lo aveva investito del feudo d'Ottobiano, nel Pavese (procura del duca di Milano a Gaspare Visconti, 28 nov. 1434) e, il 26 ott. 1441, dei feudi di Frascarolo, Tor de' Berretti e Cascina de' Bossi, in Lomellina. Più tardi, il 24 sett. 1443, il duca confermava le immunità e le esenzioni dei nobili Mafiolo da Birago, "maestro generale dell'Aula", e di suo figlio Andrea "camerario ducale", ed estendeva questo privilegio anche ai loro discendenti (diploma Nullum umquam).
Il 13 ag. 1447 moriva nel Castello di Porta Giovia, a Milano, il duca Filippo Maria, ultimo dei Visconti. Poiché la malattia del duca era stata tenuta nascosta, l'improvvisa notizia della sua morte lasciò la città sbigottita e costernata; il popolo si divise immediatamente tra la fazione degli Sforzeschi e quella dei Bracceschi, che facevano capo a Nicola Piccinino, da Perugia, ed erano favorevoli all'avvento come duca di Milano di Alfonso V d'Aragona, designato, a quanto pare, dal defunto Filippo Maria. Ma la fazione degli oligarchici non lasciò ai Milanesi il tempo di decidere fra i diversi pretendenti all'eredità viscontea: il 14 agosto - il giorno seguente la morte del duca - un gruppo di aristocratici si impadronì del potere, proclamando la Repubblica ambrosiana e la restaurazione degli antichi ordinamenti comunali. La plebe, soggiogata dai discorsi di carattere demagogico che facevano gli esponenti del nuovo governo, li seguì - per il momento - con entusiasmo; e di essa si valsero i nuovi capi per sloggiare dal castello di Porta Giovia il rappresentante di Alfonso d'Aragona a Milano, il quale si era impadronito del castello ed aveva costretto i capitani d'arme a giurare fedeltà al re di Napoli. Il 22 agosto la Rocca e il 28 la Rocchetta cadevano nelle mani del governo repubblicano, che incitava il popolo a raderle al suolo come simbolo della caduta tirannia.
Secondo una lettera non firmata, indirizzata in data 30 ag. 1447 alla figlia di Filippo Maria Visconti (Bibl. Naz. di Parigi, Mss. Ital. 1584, ff. 281-282), la resa del castello di Porta Giovia (esclusa la Rocchetta, ove si erano asserragliati gli Aragonesi) sarebbe stata trattata non dal luogotenente del re di Napoli, ma dallo stesso castellano, Antonio Saratico. Nelle capitolazioni di resa il castellano avrebbe ottenuto dal governo della Repubblica l'incolumità e la libertà per sé e per i suoi; ma anche di poter portar fuori della rocca il tesoro ducale, che sarebbe poi stato diviso fra lui e i suoi più diretti collaboratori: Domenico Frarusino, Giovanmatteo Bottigella ed il "magnifico" Birago.
Le inspiegabili ragioni della presenza, in quei drammatici momenti, del B. nel castello (presenza cui, d'altro canto, sembrerebbe alludere il dispaccio inviato il 19 agosto di quello stesso anno dal Guarna allo Sforza), e il fatto che il B. fosse una delle persone tra le quali sarebbe stato diviso il tesoro ducale, lasciano - soprattutto per il silenzio delle fonti a noi note - piuttosto perplessi circa l'attendibilità della notizia. Confermano tali perplessità le concordi testimonianze delle fonti, secondo le quali il B. partecipò anche, ma accanto ai capitani del popolo, agli incontri del 27-28 agosto, in cui vennero discussi con Carlo Gonzaga e col rappresentante del re di Napoli i termini della resa della Rocchetta.
Già il 1º settembre di quello stesso anno, comunque, il B. si era dichiaratamente schierato dalla parte di Francesco Sforza, genero dell'ultimo dei Visconti: si trovava infatti a Pavia, intento a svolgere un'attiva propaganda antimilanese e autonomista, che non doveva tardare a mostrare i suoi buoni frutti. Il 16 di settembre Pavia si dette allo Sforza, il quale, dal canto suo, si affrettò a creare il B. luogotenente della città in suo nome. Chiamato dal governo della Repubblica ambrosiana ad assumere la condotta della guerra contro Venezia, lo Sforza inviò il B. in un lungo viaggio diplomatico attraverso le principali città della Lombardia col compito di conquistare alla sua causa simpatie, aiuti e, possibilmente, alleati. Benché l'azione del B., sia come inviato dello Sforza, sia come suo luogotenente in Pavia, avesse dato luogo ad aspre critiche (lo si accusava, tra l'altro, di essersi servito dell'autorità e dei poteri di cui era investito per rientrare in possesso di alcuni terreni che gli erano stati confiscati), nulla sembrò turbare i rapporti fra il famoso condottiero ed il suo luogotenente: lo Sforza lo ebbe invece tra i suoi consiglieri più fidati e i suoi collaboratori più diretti, tanto da non esitare ad affidargli l'amministrazione della sua tenuta di Bellosguardo. Dal canto suo il B. aveva fatto, e faceva, quanto gli era possibile per aiutare, non solo diplomaticamente ma anche materialmente, lo sforzo bellico del conte di Pavia, preoccupandosi delle forniture di armi o consolidando gli eserciti dei suoi alleati: come quando, da Pavia, gli scriveva che avrebbe fatto pervenire il più presto possibile a Lancillotto da Figine, cancelliere ducale a Genova, una lettera di cambio per l'acquisto di "coracine" e balestre (16 genn. 1448); o come quando lo avvisava degli screzi sempre maggiori tra Francesco Piccinino e il governo della Repubblica, dei segreti contatti di quello con i Veneziani, e gli consigliava: "Meglio saria disfarlo che aspettare la sua fellonia", di eliminarlo, cioè, prima che avvenisse qualcosa di irreparabile (29 febbr. 1448); o come quando prestava agli Eustachi tutto l'appoggio che la sua collaborazione e la sua influente posizione potevano fruttare, allo scopo di riorganizzare la flotta pavese - che egli stesso accrebbe facendo armare di tasca sua alcuni galeoni -, per impedire alle unità veneziane di risalire i corsi del Lambro e del Po. Per legare maggiormente alla causa sforzesca le famiglie più ragguardevoli di Pavia, il B. varò un provvedimento, per il quale sarebbero stati restituiti agli antichi proprietari i beni in precedenza confiscati dai Visconti in favore della Camera ducale (aprile 1448): a tal fine creò una commissione la quale, sulla base di un registro dei possessi e delle entrate della Camera in Pavia e nel contado appositamente redatto, accogliesse le domande di rivendicazione e rivedesse le confische fatte sin'allora.
A Milano, frattanto, il governo stava dando prova di una grande confusione di idee e della sua sostanziale debolezza con un atteggiamento ricco di ambiguità nei confronti dello Sforza, edi incertezza verso i Veneziani: fu assoldato, tra l'altro, a comandare le milizie cittadine proprio quel Carlo Gonzaga che aveva testé abbandonato l'esercito sforzesco. Il provvedimento non mancò di destare nuovi sospetti nel conte di Pavia, il quale, del resto, nel generale disorientamento, fu l'unico a perseguire il proprio scopo con coerenza e decisione. Clamorosamente battuti la flotta e l'esercito veneto a Casalmaggiore ed a Caravaggio (luglio-settembre 1448), non solo fece pace con Venezia, ma riuscì a ottenerne l'aiuto per la conquista dell'eredità viscontea ed un contributo di guerra di 13.000 fiorini mensili. I Milanesi si affrettarono a inviargli ambasciatori: lo Sforza affermò che come marito di Bianca Maria Visconti, egli era il solo erede legittimo al trono ducale; se i Milanesi lo avessero accettato, sarebbe stato per loro come un padre; in caso contrario, avrebbe fatto ricorso alle armi. Alla risposta negativa del governo repubblicano, lo Sforza passò all'offensiva, impadronendosi di Abbiategrasso e Novara, mentre Tortona, Vigevano e Parma gli aprivano le porte, riconoscendo la sua sovranità.
In questi frangenti toccò al B. una nuova importante missione diplomatica. Insieme con Giacomino da Biandrate, fu inviato presso il marchese di Monferrato - con cui aveva avuto contatti già all'epoca di Filippo Maria - per ottenere che accettasse una condotta al servizio dello Sforza: il 1º novembre il Paleologo accettava le proposte fattegli dal B., e, con la promessa di Torino, di Mondovì e dei loro territori, - entrava al servizio del conte di Pavia.
Di quale importanza e di quanta delicatezza fossero tali trattative, e, d'altro canto, quale fiducia il conte di Pavia nutrisse nei confronti del B., possono rivelare alcuni particolari sull'episodio. Del contratto relativo alla condotta del Paleologo non fu redatto alcun documento scritto, così come non esisteva promemoria o minuta scritta delle promesse di cui era latore il B.: "se mai sorgessero divergenze, doveva badare (il marchese di Monferrato) alle dichiarazioni di Andrea da Birago e del maestro Iacomino da Biandrà". Con lettera dell'11 dicembre del 1448, tuttavia, lo Sforza rassicurava il Paleologo, confermandogli le proposte e le promesse fatte dai suoi inviati; aggiungeva inoltre che gli avrebbe concesso in feudo la città di Alessandria e le altre località ad essa pertinenti non ancora venute sotto la sua giurisdizione.
L'8 maggio 1449 il B. fu dichiarato "ribelle" alla Repubblica, insieme con numerosi esponenti della fazione sforzesca, e i suoi beni furono confiscati. Il 2 agosto, per ingiunzione dei "capitani e difensori della libertà", i sindaci della Comunità di Milano condannavano a gravissime sanzioni il B., contumace perché bandito, e suo fratello, in un processo intentato contro di loro da un certo Franciscolo de Vallariis, che li accusava di essersi appropriati illegalmente di due lotti di terreno e di una casa, che gli erano stati confiscati trent'anni prima, per ordine dei duchi Giovanni Maria e Filippo Maria Visconti.
Nonostante siffatte prove di forza, il disorientamento del governo e del popolo di Milano, stretta dal blocco sforzesco, era, in quell'estate del 1449, al colmo. I popolani, ora al governo della Repubblica, abbandonati dallo stesso Gonzaga rientrato nelle file sforzesche, preferirono avviare trattative con i Veneziani: riuscirono a ottenere una pace, sia pure al prezzo di gravi sacrifici territoriali; allo Sforza venne riconosciuto il dominio su Cremona col territorio al di qua dell'Adda, su Pavia, su Parma e su Piacenza coi loro distretti, più tutte le conquiste da lui fatte sin allora nell'Oltrepò e nell'Oltreticino (24 settembre). Il conte di Pavia, che era stato tenuto all'oscuro di questi maneggi e di queste decisioni, ma da cui si esigeva l'approvazione del trattato entro trenta giorni dalla notifica, fu informato solo il 30 settembre, e da ambasciatori veneti, che lo invitarono ad accettare senz'altro il fatto compiuto: essi ponevano infatti l'accento sull'alleanza decennale stipulata il giorno avanti tra Venezia e Milano e la cui funzione era ovviamente antisforzesca (29 settembre).
Francesco Sforza non volle dare subito una risposta negativa; congedò anzi gli ambasciatori con buone parole e, poco dopo, inviò a Venezia una legazione di cui facevano parte, come suoi fiduciari, il B. e il suo collega Angelo Simonetta, e alla quale si accompagnò, non sappiamo con quali funzioni, anche un fratello del condottiero, Alessandro Sforza. Il B. e il Simonetta avevano il compito di indurre la Signoria a condizioni più eque nei confronti del conte di Pavia; ma questi aveva perentoriamente vietato ai suoi inviati di ratificare convenzione alcuna senza la sua esplicita approvazione (inizi di ottobre). La Signoria, che aveva tutti gli interessi a che lo Sforza accettasse la pace del 24 settembre, trattò assai duramente i suoi inviati: vietò loro qualsiasi discussione circa le condizioni di pace; interdisse loro di circolare liberamente per la città; fece loro sapere che, se volevano tornare a casa, avrebbero dovuto ratificare l'accordo stipulato con Milano e i suoi alleati: in caso contrario, sarebbero stati trattenuti a forza; negò loro perfino il diritto di inviare un corriere allo Sforza, per chiedergli istruzioni. Costretti da queste violenze, il B. ed il Simonetta, "consiglieri e procuratori di Francesco Sforza Visconti", nella sala delle udienze del palazzo ducale di Venezia apposero, il 12 ottobre, le loro firme al trattato del 24 settembre, ratificandolo, "presente e consenziente Alessandro Sforza fratello di Francesco". Solo allora furono lasciati liberi di partire.
È naturale che il conte di Pavia considerasse nulla la ratifica estorta con l'intimidazione ai suoi inviati: inviò immediatamente a Venezia un altro ambasciatore, Giovanni da Amelia, suo segretario, che denunziasse l'operato della precedente legazione. Non riuscendo a trovare una base comune per iniziare le trattative, lo Sforza ruppe definitivamente con Venezia, riprendendo con maggior decisione le operazioni militari contro quest'ultima; quanto a Milano, si limitò a curare la piena efficienza del "cordone sanitario" per impedirne il vettovagliamento. Per comprensibili ragioni politiche e psicologiche, egli non voleva infatti portare le armi contro la città di cui si proclamava duca, ma costringerla, con la fame, a rovesciare il governo usurpatore.
La sera del 26 febbr. 1450 faceva il suo ingresso in Milano, acclamato come liberatore dalla folla, lo Sforza: primo, dopo di lui, nel gruppo dei suoi diretti collaboratori, veniva il Birago. Ma il condottiero non volle fermarsi nella città: poche ore dopo il suo ingresso trionfale, tornava a ritirarsi nei suoi accampamenti.
Lo Sforza sapeva infatti perfettamente che, data la delicatezza della sua posizione e la pretestuosità delle sue ragioni ereditarie, una signoria estorta a una città affamata, arresasi a discrezione dopo un lungo assedio, non poteva avere alcun fondamento o alcuna forza giuridica che giustificasse, agli occhi dei legittimisti, la sua usurpazione.
Il conte di Pavia aveva però lasciato nella città alcuni suoi uomini di fiducia che, sensibilizzando l'opinione pubblica in senso a lui favorevole, portassero gradatamente i circoli responsabili milanesi a offrirgli spontaneamente, con la signoria sulla città, l'eredità dei Visconti. Tra questi vi fu probabilmente anche il B., che appunto in questo periodo di tempo fu reintegrato nei suoi antichi diritti: tutti i beni che, in Milano e fuori Milano, nel territorio del ducato gli erano stati confiscati dal governo repubblicano, gli furono restituiti con una serie di provvedimenti ufficiali.
Si andava intanto intensificando la propaganda in favore del conte di Pavia: in un'adunanza popolare nell'arengo Guarnieri Castiglione diresse il dibattito in modo tale che l'unanimità dei presenti si espresse in favore di una signoria dello Sforza (11 marzo). E il 22 marzo lo Sforza fece il suo secondo ingresso solenne in Milano, quello ufficiale.
Iniziata l'opera di ricostruzione e di riorganizzazione dello Stato visconteo, lo Sforza volle presso di sé il B., che riprese in tal modo la sua antica funzione di consigliere e di procuratore ducale. In questa veste egli presenziò infatti, dopo poco, all'atto formale con cui il marchese Guglielmo di Monferrato dichiarava di rinunziare, in favore del duca di Milano, ai suoi diritti su Alessandria. Scoppiata nuovamente la guerra - dopo una lunga serie di convulse trattative diplomatiche che avevano visto il rovesciamento delle alleanze tradizionali - tra Milano, Firenze, Genova e il re di Francia da una parte, e Venezia e Napoli dall'altra, l'esercito veneziano prendeva decisamente l'iniziativa: il 26 luglio 1452, presso Cavenago, urtava contro le avanguardie che il duca di Milano aveva inviato nel Lodigiano sotto il comando del fratello Alessandro. Le truppe sforzesche venivano completamente disfatte il giorno seguente presso Cerreto (Lodi): tra i prigionieri il più illustre fu il B., che, tradotto a Venezia sotto buona scorta, fu liberato poco dopo grazie all'intervento diretto del duca di Milano. Sul finire di ottobre veniva inviato ad Alessandria, in seguito a formale richiesta di Corrado Sforza, altro fratello del duca, governatore di quella città, col compito di pacificarla e di riportarla alla fedeltà allo Sforza. Il B., che era al comando di ben 3.000 cavalleggeri e di 500 fanti, aveva le funzioni di commissario straordinario del duca ("munus legationis obibat", scrive il Simonetta) e poteri illimitati: agendo con la decisione e l'accortezza che gli erano proprie (ma anche mandando al confino o facendo addirittura arrestare gli elementi più ostili o meno acquiescenti al nuovo ordine) riuscì a riportare ben presto l'ordine e la normalità in Alessandria. E da Alessandria, dove si trovava ancora nell'estate dell'anno successivo, organizzava l'impresa che, grazie anche al prezioso contributo del genovese Giovanni Montaldo, portò Bartolomeo Colleoni ad occupare Borgo S. Martino in nome del duca di Milano, indicandoin tal modo al marchese del Monferrato la via che gli consentisse d'uscire, senza troppi danni, dal conflitto (15 sett. 1453).
In quell'agosto del 1453 il B. aveva avuto anche il non facile incarico di accogliere degnamente il delfino di Francia, Renato - inviato con un corpo d'armata in Italia da Carlo VII, come aiuto agli alleati nella lotta contro il re di Napoli -, e di provvedere gli alloggiamenti ove acquartierare le milizie angioine. La faccenda era assai delicata, sia per l'autonoma azione politica svolta dal delfino, sia per i disordini che poteva fomentare nella città la presenza delle soldatesche francesi. Il legato ducale aveva tuttavia saputo organizzare le cose in modo tale da non provocare neanche i risentimenti della popolazione italiana; nei confronti del delfino, poi, a cui venne usato un trattamento sontuosamente regale, il B. svolse tutte le arti fornitegli dalla sua sottile diplomazia, riuscendo a destare nel principe simpatie per gli alleati di suo padre. Nel felice compromesso stipulato il 15 settembre in Alessandria fra il marchese del Monferrato e il principe Renato si deve indubbiamente vedere uno dei frutti dell'abile azione del B. (lo ammette lo stesso Simonetta, che, per essere suo collega e rivale nei favori dello Sforza, non può essere accusato di tendenziosità nei suoi confronti).
Una parte di primo piano dovette svolgere il B. come consigliere e procuratore dello Sforza nei contatti preliminari promossi da Venezia e condotti segretamente, nell'autunno-inverno tra il 1453 e il 1454, da fra' Simone da Camerino: in qualità di commissario ducale partecipò ai colloqui di Crema e di Lodi che condussero alla pace, stipulata direttamente tra "Francesco Sforza Visconti, duca di Milano, etc." e Pietro Barbo, plenipotenziario veneto, ratificata ufficialmente nel palazzo ducale di Lodi il 9 apr. 1454, e al documento ad essa relativo il B. appose la sua firma come testimone. Riprese le sue missioni diplomatiche nel corso delle trattative fra Roma, Napoli, Venezia, Firenze e Milano per il patto di mutua difesa, che prese il nome di "lega italica"; morì prima di vederne la conclusione, stroncato dalla sua lunga e febbrile attività a Milano.
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Numerosi documenti inediti relativi alla biografia ed all'attività politica del B. sono conservati nell'Archivio di Stato di Milano, sotto le seguenti collocazioni: Carteggio generale; Carteggio Repubblica Ambrosiana; Archivio Sforzesco: Potenze straniere; Registri ducali; Feudi camerali; Ducali missive. Altri sono conservati presso l'Archivio di Stato di Venezia,Senato,Secreta: Deliberazioni, per i quali, così come per quelli milanesi, sono auspicabili una sistematica esplorazione ed una edizione critica.