ANDREANI, Andrea
Intagliatore in legno, era nato a Mantova intorno alla metà del sec. XVI. Nulla si sa della sua formazione, dei suoi studi e della attività da lui svolta da giovane. Prima dell'anno 1584 lo troviamo a Roma, dove pubblica, senza data, una copia in 8 fogli del celebre Trionfo della Fede di Tiziano, desumendola in controparte dai legni di Lucantonio degli Uberti (3 ediz., Venezia, Bernardino Benali, 1516), e la dedica al pittore J. Ligozzi. Da questa copia e dall'uso fatto in seguito di altre xilografie veneziane, è lecito dedurre che l'A.sia stato a Venezia e vi abbia acquistato stampe esemplari, specialmente di origine tizianesca.
Il Trionfo della Fede intagliato dall'A. denunzia subito l'inclinazione di questo incisore per il grandioso; tuttavia egli rimane ancora nel solco tradizionale della xilografia lineare, eseguita per mezzo di un unico legno, e solo più tardi prenderà ad incidere e stampare con più legni complementarmente sovrapposti, in un modo che partecipa più del camaieu nordico "a contorni chiusi" che non del chiaroscuro di Ugo da Carpi "a contorni aperti".
Nel 1584 l'A. è a Firenze, dove pubblica il Romano che rapisce una Sabina del Giambologna (Loggia dei Lanzi) e quindi nel 1585 il bassorilievo del piedistallo dello stesso gruppo, nonché il Pilato che si lava le mani (Cappella dell'Annunziata) pure del Giambologna. Ma si tratta di opere di lunga lena, per eseguire le quali l'A. doveva essersi stabilito da qualche tempo a Firenze, chiamatovi forse dal Ligozzi, pittore alla corte del granduca.
Anche del Romano che rapisce una Sabina l'A. volle fare cosa degna di meraviglia, incidendo tre volte, da tre punti di vista differenti; prima con tre legni per i contorni, le mezzetinte e i lumi, e poi, accresciutene le dimensioni, con due legni. Più complicato si fa ancora l'intaglio del piedistallo, che vediamo eseguito a quattro legni e stampato su sei fogli. A quattro legni, su due fogli in larghezza, è inciso anche il Pilato,ed ha questo di particolare, che l'A., nel firmarsi, si qualifica fiorentinamente "lo 'ntagliatore". Egli era dunque conosciuto come tale, e come tale lo apprezzavano, oltre al Ligozzi, dotti e gentiluomini fiorentini, ai quali andava dedicando i suoi intagli, che non si limitarono, nella stessa Firenze, alla sola riproduzione di statue e bassorilievi, cioè di oggetti senza colore.
Nel 1585, infatti, l'A. pubblicò la Sepoltura di Cristo di Raffaellino da Reggio, La Vergine fra s. Caterina da Siena e s. Francesco del Ligozzi e l'Allegoria della Virtù contrastata dello stesso, servendosi di quattro legni. Nel frattempo era stato a Siena e vi aveva visto il pavimento del duomo, eseguito dal Beccafumi ad intarsi di marmo, e di quell'opera s'era invaghito, sia perché affine al suo modo d'incidere, sia perché, presentando piani di tinta già bell'e selezionati, gli chiariva vieppiù i problemi propri del suo mestiere. Dell'esperienza compiuta su quei marmi si sarebbe ricordato specie più tardi nell'incidere il Trionfo di Giulio Cesare del Mantegna.
A Siena l'A. risulta nel 1586; ma anche qui dovette essere giunto prima, se in quell'anno poté dare in luce la parte più laboriosa della riproduzione del pavimento del duomo. Qui, come già a Roma, ricopia in controparte una stampa tizianesca, quella ad un sol legno detta dei Sei Santi, attribuita al Boldrini su disegno che lo stesso Tiziano, a detta del Vasari, aveva tracciato sulla matrice lignea, ricavandolo dalla parte inferiore della sua Madonna di S. Nicolò passata poi alla Pinacoteca Vaticana, e la dedica al nobile senese Fabio Bonsignori. A Siena l'A. si sente a suo agio, vi contrae molte amicizie ed è felice di sentirsi chiamare "pittor Sanese" e di firmarsi "Intagliatore in Siena", come si legge in una Madonna a mezzo busto dal Casolani ch'egli dedicherà nel 1591 ad un altro nobile senese, Panfilo Berengucci. Nel 1588 pubblica l'Allegoria della Morte di Giov. Fortuna Fortunius, anch'egli senese, e divulga il ritratto di profilo del Dürer cinquantaseienne, deducendolo dal noto originale tedesco; nel 1589 dedica al Bonsignori la copia di un'altra xilografia tizianesca, il Passaggio del Mar Rosso, pubblicata da Domenico delle Greche, "depentor Veneziano", nel 1549. L'A. inverte la composizione e riduce a quattro grandi tavole le dodici dell'originale, aggiungendovi un piano per la mezzatinta lumeggiata, e firma "Titian inventor, A. A. Intagliator Mantovano". Tiziano è sempre in cima ai suoi pensieri, e di lui riprodurrà ancora altre opere, compreso il famose Diluvio, di cui qualcuno oggi mette in dubbio la paternità e che il Boldrini aveva intagliato in due fogli. Ma la fatica maggiore dell'Andreani in Siena è costituita dalla riproduzione delle tarsie marmoree del pavimento del duomo: Il sacrificio di Abramo, Eva dopo il peccato, Abele, Mosè che spezza le tavole della legge. Per quest'ultimo sembra che egli si sia giovato dell'aiuto di Francesco Vanni, a giudicare da un disegno conservato agli Uffizi. Ma di ciò non si trova cenno nella stampa, che vide la luce nel 1590, con dedica al cardinale Scipione Gonzaga. Di questa stampa si conoscono pochi esemplari a quattro legni, mentre più numerosi sono quelli stampati con la sola tavola dei contorni. Nel solo anno 1591 l'Andreani intagliò ben cinque opere del pittore senese Alessandro Casolani, fra cui, ammiratissima, la Meditazione sul teschio, detta da alcuni "La Melanconia". Nel 1595 intagliò dello stesso Casolani la grandissima Deposizione, a quattro legni su tredici fogli, dedicandola a Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova. Da questa dedica e da quella precedente al cardinale Scipione Gonzaga si può arguire che l'A., nonostante la stima di cui godeva in Siena, incominciava a sentire la nostalgia della sua città natale e si adoperava per farvi ritorno, offrendosi d'incidere, sotto la protezione di quella corte, il Trionfo di Giulio Cesare che Andrea Mantegna aveva dipinto al tempo di Francesco Gonzaga e Giorgio Vasari aveva potuto ammirare in Mantova quando era nel Palazzo Pusterla "presso San Sebastiano" (oggi a Hampton Court).
Il desiderio dell'A. di far ritorno alla città natale sembra che non sia stato subito esaudito. Comunque, le cose non andarono nel modo riferitoci finora. Il Trionfo, costituito di dodici fogli, di cui nove per i pannelli della figurazione, uno per il frontespizio e due per le finte colonne da ritagliare ed inserire tra pannello e pannello, ed inciso con il solito sistema dei contorni chiusi, delle mezzetinte e dei lumi, reca una data del 1598 ed una del 1599: la prima tra le finte colonne di una delle due tavole accessorie e l'altra nel frontespizio. Ciò diede luogo alla supposizione che l'A. si fosse stabilito a Mantova almeno nel 1598, per invito di Vincenzo Gonzaga e con l'espresso incarico di riprodurre l'opera del Mantegna. Invece, dalla lunga e complicata dedica in latino, si apprende che nel 1599 l'A. risiedeva ancora a Siena, e lì, non già a Mantova, intagliava il frontespizio dell'opera, dopo aver intagliato di tutto il rimanente non più, forse, che le sole tavole delle finte colonne. Insomma il frontespizio del Trionfo di Giulio Cesare, eseguito a tre legni, anziché a quattro come in seguito le tavole della figurazione, era soltanto un anticipo dell'opera, per il cui compimento ("ad opus perficiendum") l'A. attendeva il tanto desiderato richiamo dalla città di Siena, "anche se a lui cara", alla nativa Mantova, e la corresponsione generosamente promessagli, non solo del vitto, ma anche di tutto il necessario all'esercizio del suo mestiere ("et ad victum necessaria sponte atque abundantissime suppeditaveris..."). Sembrerebbe da ciò che fino a quel momento l'A. fosse stato a Mantova solo per impetrare la protezione della corte e ritirare una parte delle riproduzioni del Trionfo che il pittore locale Bernardo Malpizzi andava eseguendo all'acquarello (v. pezzi superstiti all'Albertina) e dalle quali egli avrebbe tratto poi i disegni definitivi ed i legni.
Non sappiamo quando precisamente abbia avuto luogo il richiamo; ma anche nel caso che l'A. si fosse stabilito a Mantova nello stesso anno 1599, i due anni seguenti se ne sarebbero andati per le altre tavole dell'opera, quelle essenziali, da intagliare ed imprimere a quattro legni, anziché a tre come le colonne ed il frontespizio; e solo allora l'opera completa sarebbe stata licenziata e diffusa.
Il frontespizio del Trionfo di Giulio Cesare, oltre alla dedica con la data del 1599, reca un ritratto maschile che per gran tempo fu scambiato per quello del Gonzaga, mentre invece era del Mantegna, desunto dal noto busto in bronzo di S. Andrea: un omaggio preliminare, dunque, al Maestro, la cui fama l'A. si proponeva, con le sue incisioni, di veder "volare più comodamente per le bocche degli uomini". Egli sperava probabilmente di essere nominato intagliatore di corte; ed invece, pubblicato il Trionfo, lo vediamo costretto ancora a procacciarsi il pane con la fatica d'ogni giomo, come già a Roma, a Firenze e a Siena. Il suo nome ricompare a Mantova, per lavori diversi dal Trionfo di Giulio Cesare, nel 1602, e da allora ritorna fino al 1610. Non si conosce la data della sua morte, che alcuni pongono al 1623, confondendola con quella del Malpizzi.
L'A., celebratissimo in vita, fu invece troppo severamente giudicato in seguito. L'appunto più grave che gli vien mosso è ch'egli, stando in Mantova, abbia fatto uso di alcuni chiaroscuri di Ugo da Carpi e dei suoi seguaci del primo Cinquecento, apponendo la sua sigla alle matrici originali e ristampandole per la vendita; e non si tien conto della parte da lui avuta come intagliatore e come uomo di cultura in quell'impresa. Lo stesso Bartsch, che non lo risparmiò, deve ammettere senza volerlo, scambiando la seconda edizione datata 1605 delle Ninfe al bagno dal Parmigianino con la prima anonima e senza data, ma certo di Ugo da Carpi, che essa è uscita dalle sue mani, e constatare le novità introdotte in altri soggetti, quali la Pesca miracolosa da Raffaello (arazzo in Vaticano), la Clelia da Maturino, il S. Pietro in preghiera da Polidoro. Ma anche dove l'identità è quasi perfetta, come, per esempio, nella Sorpresa e nel Saturno, entrambe dal Parmigianino, non è difficile riscontrare la differenza esistente fra prove tirate per ultime da legni già logori e prove tirate per prime da legni intagliati di fresco. Sia, dunque, che si tratti di rintagli totali, eseguiti con arte consumatissima, sia che si tratti di utilizzazione parziale di vecchie matrici, bisogna considerare che vigevano ancora i precetti del Vida e cose di questo genere erano ritenute più un merito che una colpa. Quanto poi alle firme, a parte la giustificazione editoriale, non si può parlare, come si fa, di sostituzione, per il semplice motivo che i chiaroscuri originali ridati in luce dall'A. erano in generale "sans marque"; e dove c'è una sostituzione, come nell'Aiace da Polidoro, inciso per primo da Giuseppe Nicolò Vicentino, vuol dire che c'è almeno un legno rintagliato. Il fatto che l'A., pur apponendo la sua sigla ad un legno nuovo della Vergine circondata da Santi dal Parmigianino, lasciò intatta la scritta "Taglio d'Alex. ghandiny" su di un legno vecchio, sta a dimostrare la sua buona fede. Egli non intendeva togliere niente a nessuno e si studiava anzi di dare, bene o male, una paternità (Raffaello, Polidoro, Salviati, Baroccio) a quei disegni o dipinti riprodotti a cui i suoi predecessori avevano trascurato di darla.
L'asserzione, per sé stessa assurda, che l'A., pubblicato il Trionfo di Giulio Cesare, abbia smesso di fare l'intagliatore per fare l'editore, è esplicitamente smentita da un'altra dedica: quella del 1610 a don Luigi Gonzaga dell'Eroe cristiano, in cui l'A. stesso afferma di aver voluto intagliare quell'opera del Semoleo "per non far torto alla professione donatagli da Dio". D'altra parte, anche la Deposizione di Giuseppe Scolari era stata intagliata in Mantova, senza che vi fosse un precedente carpigianesco. Si legge in essa: "Giusepe Scolari Visentino pittore ecelente invent. A. A. in Mantova", ed il Bartsch gliela riconosce senza riserve, come fa per il Muzio Scevola da B. Peruzzi, di cui non si sa se sia stato mai inciso da altri prima che dall'A. nel 1608.
La figura di artista dell'Andreani, in ogni modo, si definisce all'infuori del suo momentaneo, ma non del tutto inutile, contatto con i chiaroscuristi del primo Cinquecento: i chiaroscuri tipici di Ugo da Carpi e dei suoi seguaci sono "a contorni aperti"; mostrano, cioè, i contorni interrotti nei punti toccati dalla luce; e questo è il "modo nuovo di stampare chiaro et scuro" del carpigiano, questo il segno distintivo di quell'inusitato linguaggio xilografico, cui l'A. aderì solo per incidente, mentre i suoi chiaroscuri sono "a contorni chiusi", cioè "profilati per tutto", con un procedimento che s'accosta a quello dei camaieux. Comunque, la personalità dell'A. traspare dal modo di non appoggiare la modellazione sui contorni della tavola basilare e di risecare qua e là, estenuandoli, i tratti di questa. Nessuno infine può negare il moto che si esprime, con rientranze e sporgenze alterne, ma sempre legate, come in un bassorilievo lungo e continuo, dai nove pannelli del Trionfo di Giulio Cesare, o il vigore plastico dell'ultima Deposizione (Scolari), che è assurdo attribuire, come fanno taluni, al modestissimo Gandini. Né si può rimanere insensibili al fiotto di luce bionda che s'irraggia, nonostante la serrata, quasi ferrea continuità dei contorni, a tutta la composizione, dalla Sepoltura di Raffaellino da Reggio, che l'A. aveva intagliata fin dal 1591. È difficile dire quanta di quella luce sia di Raffaellino pittore e quanta dell'A. intagliatore e stampatore.
Fu attribuita pure all'A. un'Adorazione dei Magi di T. Lovini, detto il Caravaggino; ma si tratta di una confusione, in quanto l'attività del Lovino, figlio di Marco Veneziano, che aveva bottega in Roma al Leoncino, "vicino alla strada della Croce", si svolse posteriormente a quella dell'Andreani. Il "Luvin inv." che si legge in una stampa a quattro legni descritta dal Bartsch (II, n. 4) deve riferirsi evidentemente, come lo stesso Bartsch suppone, a Bernardino Luini; ma nulla ci autorizza ad affermare che l'incisione, senza firma d'intagliatore, sia stata eseguita dall'A., il quale aveva l'abitudine di sottoscriversi sempre con grande evidenza. Quanto poi ai suoi rapporti con il Malpizzi e alla parte che ciascuno dei due ebbe nella pubblicazione del Trionfo di Giulio Cesare, è da respingere nettamente l'ipotesi affacciata dallo Zanetti, ed in seguito appoggiata, anche se con riserva, dal Kristeller, secondo cui il Malpizzi sarebbe stato l'editore dell'opera. Per sostenere ciò si è voluto leggere nella F puntata della sottoscrizione del Malpizzi ("Bernar. Malpitius Pict. Mant. F. Mantuae MDXCVIIII") la parola formis, invece di fecit. Ma anche su questo punto la luce ci viene dalla dedica. In essa si parla esplicitamente di "forme", ma di forme dello stesso A., intagliatore, stampatore ed editore, il quale si propone di realizzare questa sua "nuova adombrazione" del Trionfo con "tipi lignei di svariate forme" (typis ligneis svar. formar."), intendendo per "svariate forme" i quattro legni da usare per ciascuna delle tavole della figurazione: una per i contorni e le altre per le mezzetinte ed i lumi. Il Malpizzi non c'entra per nulla e la sua parte è precisata nell'ultima linea: F(ecit), cioè eseguì gli acquerelli dai nove pannelli su tela del Mantegna. Il Malpizzi diede inoltre ad incidere e pubblicare all'A. un'opera di sua invenzione, la Cortigiana punita, ispiratagli dalla salace leggenda di "Virgilio nel cestone", cui un altro mantovano, Bonamente Aliprandi, indipendentemente da un precedente "contrasto" di Antonio Pucci e da altre versioni popolaresche italiane e straniere, aveva dato compiuta forma letteraria fin dai primi del '400. La stampa reca in basso la scritta: "Bernar. Malpitius Mant. Inv." e la solita sigla dell'Andreani. È forse la sua ultima opera, quasi un estremo omaggio alla sua città natale.
I soggetti incisi di prima e di seconda mano dall'A. a noi giunti si fanno ascendere, fra incertezze e dispareri, a poco più di settanta, con un numero però multiplo di legni, che è facile calcolare, tenendo presente che per un solo particolare del pavimento del duomo di Siena, il Mosè, ne occorsero 48, per la Deposizione del Casolani 58 e per il Trionfo di Giulio Cesare 45. Una fatica da giganti.
Bibl.: A. Bartsch, Le Peintre Graveur, XII, Vienne 1811, pp. 17 s., e Cat., passim; G. Gori-Gandellini, Notizie storiche degli Intagliatori (con aggiunte di L. De Angelis), V, Siena 1809, pp. 162-175;P. Zani, Encidopedia metodica..., II, 1, Parma 1819, p. 286; VIII, 2, ibid., 1821, p. 6; A. Zanetti, Le premier siècle de la Calcographie (Cabinet Cicognara), Venise 1837, pp. 41-56; C. D'Arco, Di cinque valenti incisori mantovani, Mantova 1840, pp. 53-59, 117-125; N. Gualandi, Memorte originali italiane riguardanti le Belle Arti, II, Bologna 1841, pp. 155 s.; Ch. Le Blanc, Manuel de l'amateur d'éstampes, I, Paris 1854, pp. 42-44; G. Nagler, Die Monogrammisten, I, München 1858, pp. 86, 907, 1017; J. D. Passavant, Le Peintre graveur, I, Leipsic 1860, p. 149; III, ibid. 1862, p. 179; VI, ibid. 1864, pp. 220 s.; W. Seibt, Helldunkel, III, Frankfurt am Main 1891, pp. 56-61; W. Korn, Tizianus Holzschnitte, Breslau 1897, pp. 29, 47, 75; P. Kristeller, Andrea Mantegna, Berlin-Leipzig 1902, p. 308; Id., Il Trionfo della Fede... nach Tizians Zeichnung, "Graph. Gesellschaft", Berlin 1906; A. Luzio, La Galleria Gonzaga..., Milano 1913, p. 39; A. Reichel, Die Clair - Obscur - Schnitte des XVI., XVII., und XVIII. Jahrhunderts, Zürich-Leipzig-Wien 1925, p. 35; M. Pittaluga, L'incisione italiana nel Cinquecento, Milano s. d. [ma 1930], pp. 253-57, 329; L. Servolini, La xilografia a chiaroscuro italiana, Lecco 1930, pp. 103-128; A. Petrucci, Il "chiaroscuro" italiano, in L'Italia letteraria, VIII(1932), n. 23, p. 4; Id., Di Ugo da Carpi e del "chiaroscuro italiano", in Bollett. d'arte, XXVI(1932-1933), pp. 277, 279, 281 n. 22; G. F. Guarnati, Bianco e nero, Milano 1937, p. 46; A. Luzio e P. Paribeni, Il trionfo di Cesare di Andrea Mantegna, Roma 194, pp. 18, 22, 36, 40, 74, 77, tav. XIX-XXI; F. Mauroner, Le inc. di Tiziano, Padova 1943, pp. 72 s.; L'opera del genio ital. all'estero, A.Petrucci, Gli incisori dal sec. XV al sec. XIX, Roma 1958, pp. 57, 64; A. Petrucci, L'intagliatore, in Il Messaggero, 12 luglio 1960; J. Meyer, Allgem. Künstler-Lexikon, I, pp. 715-727; U. Thieme-F. Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, I, pp.468-470; Encicl. Ital., III, p. 210.