CASTELLAMONTE, Amedeo di
Figlio del conte Carlo e d'Ippolita Maria Fiocchetto, nato a Castellamonte (Torino) nel 1618, si addottorò in legge. Sulle orme paterne si dedicò all'architettura; e proprio affiancando l'opera del padre compì il suo tirocinio. Non sono documentati viaggi d'istruzione, benché non siaimprobabile un soggiorno a Roma o in altri centri: sulla sua giovinezza, come su quella del padre, le fonti tacciono. Il suo nome e menzionato per la prima volta a proposito del castello del Valentino di cui a partire dal 1633 curò il proseguimento e la decorazione, affidata a maestri luganesi. B. Signorelli, cui si deve la retrocessione al 1620 dell'inizio della fabbrica ritiene sulla scorta degli atti rinvenuti chenel '30 fosse già ultimato il corpo centrale. Comunque stiano le cose (né è possibile coi dati attuali avanzare altre ipotesi), in tale epoca il C. collaborava attivamente col padre, ripetendo la situazione d'interscambio avvenuta fra quest'ultimo e il Vitozzi. Solidale con la visione paterna, indotto anzi a tradurla materialmente in pratica, si permeò del gusto, delle tendenze, degli umori della corte. Erano anni difficili per il ducato; né il breve regno di Vittorio Amedeo I poté bastare a caratterizzare altrimenti la fisionomia della capitale: lo stesso progetto d'ampliamento del palazzo ducale verso il duomo (1633) s'arrestò presto per mancanza di fondi né fu proseguito dalla vedova, che ne usò anzi i materiali per erigere una grandiosa reggia sul sito della preesistente.
Nel 1639 il C. venne nominato ingegnere ducale (ma già il 4 dic. 1637 gli erano stati trasferiti gli emolumenti del padre) e patenti gli vennero conferite anche il 20 marzo 1641 e il 16 luglio 1650 (Manno). In tale mansione dovette attendere, oltre che al castello del Valentino, ad altri incarichi. Il 3 apr. 1642 l'architetto A. Costaguta, informando la duchessa dello stato dei lavori per la chiesa di S. Teresa in Torino, notificava, ad es., che l'area era stata misurata dal C., il cui nome apparirà quale arbitro anche in una transazione del 29 ott. 1646 fra i frati e il conte Grondana. Ago stesso anno si può situare l'inizio, nelle forme attuali, del palazzo reale e dei lavori per la decorazione e il compimento della chiesa di S. Salvario.
L'impresa di maggiore impegno è costituita naturalmente dalla reggia, trattandosi non solo di inserire un edificio rappresentativo nel cuore di Torino ma di riplasmare - senza deturparla: - la piazza del Castello, mantenendo e armonizzando lo spazio di rispetto sia dinanzi ad esso (dimora della duchessa) sia di fronte al palazzo nuovo, sede del sovrano. Il C. seppe risolvere con abilità tale problema ideando un fabbricato aperto da un lato su giardini (e di lì sulla campagna), contiguo dall'altro al duomo (centro del potere religioso) e disposto frontalmente verso la via Nuova - a significare il convergervi d'ogni attività - con piazza propria recintata, complemento e alternativa a quella del Castello. Tuttavia la facciata (1658)non ha particolare spicco, è anzi piuttosto neutra nonostante l'eleganza dei particolari. Confluisce in tale fatto la sottomissione d'ogni parte al tutto: un tutto concepito razionalmente e realizzato in piena complementarità reciproca.
A quegli stessi anni risale il progetto di rinnovamento della fronte del Castello (palazzo Madama), la cui idea - abbozzata già verso il 1651 - non fu tradotta in pratica (e in quali esatti termini s'ignora) se non verso il '75.
Pochi e controversi documenti non bastano ad accertame la paternità, ma la sua tipologia - qual è attestata da incisioni coeve e cioè a unico ordine monumentale di lesene - fa propendere per l'attribuzione al C., cui fu anche assegnato il voltone della sala degli svizzeri (con data circa 1658-63)basato su un sistema colossale d'arconi intrecciati. Recentemente però Mallé (1970)ha suggerito una data più avanzata (1721)e l'ipotesi di un'autografia iuvarriana. Pure al C. spetterebbe per ragioni stilistiche (non suffragando l'ipotesi alcun documento) la volta del gabinetto di Cristina di Francia con imprese dei Savoia.
Il Vesme riporta una lettera del C. al duca del 16 giugno 1650 relativa al convento di S. Francesco da Paola: si tratta d'intervento modesto, una semplice ispezione a un muro divisorio nel giardino, ma per la chiesa omonima l'architetto sarà chiamato ad erigere l'altar maggiore (eseguito da T. Carlone e collaudato il 6 dic. 1655), sontuosa e complessa macchina non appoggiata al muro ma situata al centro del presbiterio. Da un'altra lettera del 10 luglio 1653 s'apprende che erano allora in corso d'ultimazione l'appartamento di Cristina e altri ambienti nel convento di S. Cristina; mentre proseguiva la costruzione della vigna di Madama Reale, s'eseguivano lavori d'adattamento nel castello di Moncalieri e si completavano l'altar maggiore di S. Carlo e quello di S. Antonio alla Madonna degli Angeli. Il C. appare perciò adibito a vasti compiti, prova del favore della corte è di una fama acquisita in proprio, anche per la fedeltà ai modi patemi. Non è ancora infatti l'ora del Guarini ed egli può dominare incontrastato l'ambiente cittadino: specie per la nomina nel '46 ad architetto ducale, nel '59 (2 aprile) a sovraintendente generale delle fabbriche e fortificazioni e consigliere di Stato, nel `67 a luogotenente generale d'artiglieria e nel '78 infine (4 aprile) a primo ingegnere del duca.
Nel 1654 (lett. del 16 agosto al ministro Caron di San Tommaso) è accertata la progettazione della chiesa dei SS. Bernardo e Brigida a Lucento, mentre una impresa di assai maggior portata si fa strada coinvolgendolo (come già il padre) direttamente. Una serie di lettere del 1655-56, pubblicate dal Vesme e dirette rispettivamente dal cardinal Maurizio e dal C. al duca, concerne l'attuazione della cappella autonoma per la S. Sindone già studiata a inizio di secolo.
Si trattava di ospitare degnamente la più sacra reliquia della cristianità esaltando al tempo stesso la dinastia che ne era depositaria: a tale proposito si innestò un corpo di fabbrica nel presbiterio del duomo innalzandolo al di sopra dei fedeli per ostenderlo e isolarlo al tempo stesso, mentre la creazione d'un accesso diretto con la reggia sottolineava la connessione fra la sacralità dell'oggetto e quella del potere che ne era custode. Il Carboneri ha documentato con chiarezza le vicende della cappella, dall'approvazione del progetto di B. Quadri (5 giugno 1657)su direttive del C. alla supervisione del medesimo, a breve distanza ormai dal risolutore intervento guariniano (1667):in confronto al turgore ribollente di quest'ultimo l'opera sarebbe apparsa smorta, con rampe d'accesso inerti e tradizionale cupola emisferica (cfr. Vicenda..., 1964).
Pure del '55, o di poco anteriore, è il progetto per la cappella del castello di Chambéry (già sede della Sindone) in merito al quale il C. scrive il 26 settembre al San Tommaso trattarsi di opera "molto grande": e quattro anni dopo (20 ott. 1659) una lettera al duca riguarda abbellirnenti al "suo appartamento nel castello" (palazzo Madama) e offre elementi d'importanza per lo stato dell'edificio, del quale si menziona pure "l'anticamera ove si balla" con rapporto indubbio anche se indiretto alla sua attività di scenografo. Ma intanto l'anno avanti (1658) aveva avuto inizio la sua più geniale creazione, vale a dire la residenza di caccia della Venaria di cui pubblicherà la descrizione a stampa ornata di tavole: La Venaria Reale palazzo di piacere e di caccia..., disegnato et descritto dal conte A. di Castellamonte l'anno 1672 (Torino 1674).
Il Gianazzo di Pamparato (1888) cita un documento ducale del 26 sett. 1659 concernente modalità esecutive, ed è appurato l'invio dei piani a Roma nel '61 all'esame del Bernini: e proprio il Bernini (il ricorso al suo giudizio anziché ai trattati del Palladio dice molto sul nuovo orientamento del gusto) appare quale interlocutore del libro. Né è escluso che egli visitasse la fabbrica nel suo a Torino del 1665. Nato in un momento di felicità inventiva, il complesso s'articola con scioltezza inusitata in una successione di corpi principali e di dipendenze ben raccordati al parco circostante. L'incendio appiccato dai Francesi nel 1693 poco lasciò sussistere del nucleo originario, ma il padiglione centrale (la "Reggia di Diana") col suo monumentale loggiato e l'amplissimo salone attesta una nobiltà di concezione che darà frutto negli anni a venire. La Griseri accenna all'influsso, discreto ma sensibile, del Tesauro (aperto al gusto europeo) e alle coincidenze di un'architettura neofeudale coi caratteri di un monumento della monarchia assoluta: in tal senso deliberatamente si escludono vedute a "sorpresa" e il dispotismo è presentato con chiarezza di partizioni. È l'esempio di Versailles a suggerire il modello non solo di un nucleo a sé stante (quasi città satellite), ma di un nuovo tipo di società che adegua internamente l'edificio al suo gusto del cerimoniale e alla sua propensione all'oratoria. Il Carboneri allude a possibili precorrimenti guariniani non tanto nell'ipotesi urbanistica a sfondo celebrativo e neppure nella costruzione dei singoli fabbricati, ma nelle scalee delle grotte e della fontana d'Ercole (modellate in curva e con piglio nervoso), nella facciata della citroniera energicamente rientrante e soprattutto nella porta principale sporgente all'esterno (cfr. Guarini..., 1970).
Assorbito da tale enorme impresa, il C. non mancò tuttavia di attendere alle varie altre che gli sollecitava impazientemente il duca: e del 15 ott. 1659 è la capitolazione per la "nuova facciata" del castello del Valentino, cui l'anno seguente s'aggiunse il frontone con epigrafe del Tesauro, proseguito nel '63 (27 dicembre) verso il cortile da una finta cortina di finestre simulanti un inesistente secondo piano. Il 24 giugno 1664 il duca approvò, per la chiesa di S. Lorenzo, "nuovi disegni" del C. non realizzati per il successivo avvento del Guarini (al cui parere tuttavia il C., interpellato per una controversia il 16 luglio 1677, consiglierà i committenti di rimettersi); al '65 è ascritto il palazzo Beggiamo di Sant'Albano (successivamente Lascaris), sito in via Alfieri 17, con tre piani spartiti da fasce decorative, loggia a tre arcate e cortile, concepito quale dimora di campagna e separato perciò da giardini dalle altre case circostanti. La facciata è riccamente decorata, con paramento a imitazione d'un tessuto e frontoni diversi ad ogni piano, improntati a un gusto memore dell'Alessi (Cavallari Murat, 1972). Ma recentissime ricerche d'archivio, ancora inedite, di U. Bertagna paiono escludere la mano del Castellamonte.
Maturava frattanto il proposito d'estendere la città verso Levante, in forme aderenti nello spirito a quelle poste in opera al tempo di Carlo Emanuele I. In documenti del 1669 (pubbl. da L. Tamburini, I teatri di Torino, Torino 1966, p. 18) viene menzionato "il progetto da Noi più volte fatto nell'aggrandimento di questa città dalla parte di Po", espressione chiarissima del volere ducale, e in ottemperanza ad esso il C. approntò i disegni dell'Accademia reale, poi rimaneggiata e distrutta ma caratterizzata da porticato e galleria in cui ricorrono temi tipici castellamontiani, dalle snelle colonne binate alle soluzioni di facciata.
Preludio all'espansione edilizia verso Po, fu seguita quasi subito da una sistemazione globale del tavoliere verso il fiume, con una strutturazione articolata ed energica espressa in sapienti giochi d'incastri. In luogo delle tre previste furono tracciate due vie convergenti sul Castello: via della Zecca (oggi Verdi) e contrada di Po. Quest'ultima - in voluta inosservanza dei canoni usati e seguendo la cosiddetta "strada della calce" - fu risolta obliquamente, ottenendo un forte effetto scenografico e offrendo possibilità d'innesto a edifici pubblici e privati oltre che all'attività commerciale. La soluzione canonica (ove fosse stata accolta) avrebbe salvato il tracciato ortogonale ma avrebbe portato a un tronco insignificante e senza sfogo. L'ampiezza eccezionale della strada (18 metri) prova invece il criterio illuminato di Amedeo nel concepire tale ingrandimento (iniziato nel '73 e compiuto con varianti) il cui riferimento d'obbligo era il ponte sul Po e la spina dorsale la contrada omonima. Accanto ad essa via della Zecca, più angusta, si caratterizza inversamente per la presenza dell'Accademia, della Zecca e della Cavallerizza. L'immissione di portici continui in via Po con la scansione ritmica dei pilastri (non più colonne) e i conseguenti sbattimenti d'ombre concorre ad accentuare, come già in Carlo, il valore di fuga degli edifici. Quanto alle facciate, la decorazione stacca il piano nobile dagli altri, smorzando in questi gli ornati.
Il progetto contemplava il tracciamento d'una piazza (l'odierna piazza Carlina) pensata in primo tempo ottagonale (regio biglietto del 22 genn. 1678) e realizzata poi quadrata. Mancò tuttavia (a differenza delle altre principali) un preciso impegno esecutivo, il che la privò di una fisionomia unitaria rallentandone al tempo stesso il compimento. Il disegno del C. prevedeva quattro isolati alle due estremità, formanti il nucleo interno di un tessuto più espanso e fitto con funzione di cornice (Forma urbana..., 1968); soluzione raffinata ma attuabile con direttive dall'alto o con la destinazione a compiti rappresentativi ` contrastati invece dalla preminenza indiscussa di via Po e dall'installazione (contraria agli intendimenti della corte) di istituti religiosi. Nell'estremo angolo sud-est (tra via Po e via dell'Accademia Albertina, già della Posta) per l'incombenza dei bastioni e la posizione periferica l'edificazione andò a rilento e si risolse solo a metà Ottocento con la creazione del Borgo Nuovo.
Operava nel frattempo a Torino il Guarini e il C. non mancò di risentirne in qualche modo il fascino. Già s'è detto dei precorrimenti involontari alla Venaria: per la quale appunto nel '72 sistemò il giardino e nel '78 aprì una via rettilinea d'accesso da Torino inquadrante, come là, il corpo principale e sfogata a metà su una piazza realizzata poi dall'Alfieri. Ma a una altra opera è connesso il mutamento che, per influsso del teatino, subirono i suoi modi, cioè all'ospedale di S. Giovanni Battista, iniziato nel 1680 (11 aprile) ed echeggiante nella massa colossale e nella cupezza del mattone in vista la drammaticità guariniana. È fra le sue ultime creazioni e fu ultimata nell'89 dal Baroncelli.
Il C. affiancò l'attività civile a quella militare, che fu continua e d'ampie proporzioni. La sua presenza è attestata ovunque nel ducato e il Vesme ha pubblicato varie lettere che dan conto di lavori ininterrotti a Montmélian (27 ag. 1666), ad Allinges (19 sett. 1666), nel Chiablese (1668), a Estrambières (1669), in Savoia e nel Genevesato (1671), a Pieve di Teco e Albenga (1673), in Val San Martino e Ceva (1673), Cherasco e Cuneo (1679). Anteriormente aveva atteso al castello di Avigliana (1655), Santhià, Verrua, Villanova d'Asti e Cherasco (dal 1658 in poi) e alla cittadella di Torino (1663-73). A partire dal '69, inoltre, progettò la fortificazione dell'ampliamento orientale, iniziata però solo nel 1673 e consistente in sei bastioni, tre a sud-est e tre a nord della guariniana porta di Po. Seguirono altre opere di fortificazione ad Asti e Mondovì (1678).
A tale intensa opera è da aggiungere quella di apparatore delle feste di corte. Sue sono probabilmente le scene de L'educatione d'Achille e delle Nereidi e de GliHercoli domatori de mostri (dicembre 1650), del balletto L'unione per la peregrina Margherita Reale e Celeste (11 maggio 1660), dei fuochi di gioia al Valentino I portici di Atene (1678), de Il tempio della virtù dello stesso anno e, con certezza, del Lisimaco, col quale si inaugurò il teatro Regio in Palazzo Vecchio (istruzioni del 31 ott. 1680).
Suo è pure - tra varie opere attribuite ma difficilmente documentabili - il palazzo Trucchi di Levaldigi (1673-75), adiacente alla chiesa di S. Carlo e con facciata ad angolo, risolvente con geniale intuito difficoltà d'ubicazione. Da espungere l'assegnazione del castello d'Agliè, riportabile a modi coevi ma non autografi, e così pure della scomparsa chiesa torinese dei SS. Processo e Martiniano, attribuita al 1678 ma per cui egli arbitrò semplicemente una questione di confini (15 luglio 1678), e di quella della Visitazione, compiuta dal Lanfranchi nel 1660. Altrettanto si dica per la chiesetta della Confraternita di S. Michele Arcangelo in Neive.
Il C. morì a Torino il 17 sett. 1683.
Sedicesimo conte di Castellamonte della linea Cognengo, aveva sposato nel 1638 Ippolita Maria Dentis e nel 1667 Lodovica Duchi; ebbe due figlie con le quali si estinse il ramo della famiglia.
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