MOLIN, Alvise. –
Unico figlio maschio di Alessandro (1586-1615) del ramo dei Molin d’oro e di Caterina Contarini, nacque a Venezia il 26 marzo 1606. Dal matrimonio nacque anche la primogenita Faustina (1601-78), che nel 1623 sposò Vincenzo Zen dai Frari.
Il 1° sett. 1634 il M. nella casa d’affitto a S. Pantalon sposò Foscarina Foscarini, dalla quale avrà sette maschi e due femmine: Vincenzo, Alessandro, Lorenzo, Nicolò, Gerolamo, Francesco Giovanni, Francesco Bernardino, Caterina, che sposò Zaccaria Vendramin, e Cecilia, suor Angelina nel monastero di S. Zaccaria.
Entrato negli uffici, fu eletto savio agli Ordini il 31 marzo 1632 e nel 1633, provveditore sopra i Dazi nel 1634. Ambasciatore straordinario presso Carlo II Gonzaga nel 1638 per la successione al Ducato di Mantova, portò con sé il pittore Tiberio Tinelli, il quale eseguì i ritratti del piccolo duca e della reggente, la madre Maria, nonché quello dello stesso M., ora a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia. Il 19 ag. 1638, «oppresso nel letto» dalla febbre, fece presentare la sua relazione al Senato con memoriali della reggente. Riferisce «quel poco» che ha potuto osservare in quattro giorni «impiegati in replicate udienze, visite del signor duca e della corte» (Segarizzi, p. 202). La giovane principessa, resistendo agli ambasciatori di Francia e di Spagna, vuole dipendere dalla Serenissima, che tiene in città 1500 fanti e due compagnie di cappelletti. La città risente degli effetti del sacco del 1630: gli abitanti sono scesi da 30.000 a 12.000, deboli sono le difese del porto, scarse le munizioni, dissestate le finanze, mentre i Francesi occupano Casale e il Monferrato. La risorsa principale è «l’arte della guchieria», degli aghi in ferro da lavoro a maglia.
Eletto più volte savio di Terraferma fra il giugno 1638 e 1649, deputato del Banco del ziro nel giugno 1644, savio alla Scrittura nel gennaio 1647, cassier del Collegio nel novembre 1644 e gennaio 1649, podestà a Padova il 15 maggio 1650, restò in carica fino al dicembre 1651.
Arrivato quasi due mesi prima del tempo prescritto, fino al 4 settembre svolse anche funzioni di capitano: fece completare la riparazione degli argini e l’escavazione del canale di Battaglia, Monselice, Este, e giudicò frequenti liti fra cittadini. Con il capitano Sebastiano Michiel contrastò i contrabbandi di frumento e chiese di importarne dal Vicentino per Padova, che aveva sempre rifornito Venezia e Dalmazia, pur non avendo deposito né fontego né mercato di biade. Represse abusi di conduttori dei dazi, ripartì fra arti, fraglie, castelli e Consiglio cittadino le tasse per mantenere i galeotti necessari alla guerra di Candia, fornì uomini condannati al remo, tenne a freno gli scolari dello Studio, irrequieti e rissosi. Difese il diritto di precedenza della sua corte nelle cerimonie in duomo e il 14 ag. 1651 partecipò alla festa per la vittoria sui Turchi, con fuochi, processione, Te Deum.
Dopo la fine della podestaria fu savio del Consiglio dal settembre 1652 al marzo 1653, eletto nel Collegio delle pompe nel febbraio 1652 e 1653, provveditore alle Beccarie nell'aprile 1653. Poco dopo l'evento che causò un momentaneo arresto della sua carriera: il 20 giugno 1653, con l'aiuto di un sicario, ammazzò la moglie con 13 colpi di stilo a Saletto, presso Montagnana, in territorio padovano, «per sospetto di adulterio», secondo Barbaro (V, c. 237r), per la certezza di essere avvelenato e in pericolo di vita, secondo quanto scrive nella Relazione difensiva e il 5 luglio a Vittorio Siri, abate nel monastero di S. Pietro di Modena, dove si preparava un comodo esilio, protetto dal duca Francesco I d’Este.
Nella Relazione (Cicogna, IV, 178) il M. descrive gli anni del matrimonio come un «continuo martirio», in «compagnia più d’una furia che d’una donna», mentre lui ha «sofferto le sue insoffribili insolenze con miracolosa costanza», sacrificando a Dio e agli «amatissimi» figli «i tormenti continui delle sue pazzie». Dopo le nozze della figlia Caterina (febbraio 1653), lei si era data a «vanità perniciose», a indossare «vestiti immodesti», mentre lui regolava la moderatezza dei costumi, e a tramare con la complicità di una serva. Inutili i tentativi di «raddolcirla» nella casa di campagna, dove diventa «diavolo in forma umana», «inferocito» anche verso i figlioli. Nel timore di essere avvelenato o ucciso dai servitori, il M. decise che solo eliminandola poteva impedire «l’eccidio della reputazione e della vita» e la «rovina totale» della casa.
Condannato il 28 luglio al bando perpetuo e alla confisca dei beni, lasciò – con debiti consistenti – la casa d’affitto in calle del Remedio, parrocchia di S. Maria Formosa, e si rifugiò con tre servitori alla Guarda Veneziana, sul Po, in casa del genero Vendramin. Il 2 agosto attribuì la situazione in cui si trovava all'ostilità di nemici, in particolare di tre dei Dieci, e si disse sicuro di liberarsi prima di un anno «con qualche migliaio di ducati» (Cicogna, 3014/2), come effettivamente avvenne il 20 febbraio. 1654 per i versamenti del genero e della madre alla cassa dei Dieci e al Consiglio dei deputati in Zecca.
Alla morte del doge Francesco Molin (27 febbraio1655), il M., che gli aveva fornito arredi e addobbi per il Palazzo, ereditò i quadri, libri, manoscritti, scritture pubbliche, anche del fratello dello scomparso Domenico, famoso intellettuale e mecenate (1572-1635): la vertenza con gli eredi universali Andrea e Piero Molin di Vicenzo del ramo S. Vio si concluderà solo nel giugno 1657. Intanto, fu savio del Consiglio (giugno - dicembre 1655) e presidente sopra l’esazione del denaro pubblico dal gennaio 1656, il 16 giugno successivo fu eletto provveditore alla sanità in Polesine, dove (26 giugno - 29 dicembre) attuò un'efficace azione contro il diffondersi dal Sud di focolai di peste. Alla conclusione dell'ufficio ebbe orazione celebrativa e telero con la sua immagine nella chiesa della Beata Vergine del Soccorso.
Eletto ambasciatore all’imperatore il 22 sett. 1656, per la morte di Ferdinando III (4 apr. 1657) arrivò a Vienna solo il 30 sett. 1658 e fece ingresso il 18 ottobre. Nel seguito aveva i nipoti Geronimo e Alessandro Zen e i figli, «per insegnarli ad apprender l’abbandono degli interessi privati per ben servire la Patria» (Arch. di Stato di Venezia, Dispacci degli ambasciatori, Germania, filza 112, c. 122v).
Nelle 39 carte della Relazione letta in Senato il 27 sett. 1661 – condensando più di 450 dispacci (5 ott. 1658-31 luglio 1661) – presentò l'orientamento dell’imperatore e dei suoi Consigli, la famiglia d’Asburgo, i rapporti dell’Impero con i principi di Germania e d’Italia, con gli Stati europei e, in particolare, con Venezia nella contingenza della guerra per Candia. Sottolineò che la liberalità della Casa, i disordini nell’amministrazione, la corruzione e la rilassatezza della giustizia, i contrasti nelle giunte indebolivano il governo, disunito e confuso, più aristocratico che monarchico, e lo allontanavano dalla guerra con il Turco. Sull’autorità imperiale s’imponevano elettori e principi, le città libere sfuggivano ai controlli: «il gran corpo dell’Alemagna hoggidì agita in gran commotione d’humori» (Firpo, p. 63), scosso anche dal diffondersi delle eresie. Invece di difendere Ungheria e Transilvania, la cui perdita avrebbe conseguenze funeste e metterebbe in pericolo Dalmazia e Friuli, l’imperatore mostra volontà di pace: non crede alle promesse del pontefice e al sostegno della Spagna, perde amici e non guadagna nemici.
Tornato da Vienna cavaliere, il M. fu eletto più volte savio del Consiglio (dicembre 1661 - dicembre 1667), provveditore alle Fortezze (luglio - settembre 1662), aggiunto ai Riformatori dello Studio di Padova (novembre 1662 - novembre 1663), savio alla Mercanzia (maggio 1663 - marzo 1664), provveditore in Zecca (gennaio 1644) e il 7 apr. 1665 provveditore straordinario a Palma. Presentò relazione in Senato il 15 sett. 1666, dopo 14 mesi di servizio.
«Propugnacolo della libertà e della fede» (Tagliaferri, p. 323) della grande Patria del Friuli, Palma, in pianura, all’ingresso del Friuli, è un baluardo contro le forze di due Imperatori. Il governo dovrebbe però provvedere a popolare la città, in cui gli abitanti sono soltanto 1154 (ibid., p. 328) e le fabbriche vanno diroccando. Oltre alle esenzioni e ai privilegi, bisognava darle territorio, togliendo una cinquantina di ville a Udine, e tribunale, che porterebbe avvocati, sollecitatori, notai e permanenza di benestanti. Occorre poi rinforzare le fortificazioni, eliminare le spese superflue e servirsi di un ingegnere per non disfare quello che lo stesso M. ha fatto. Bisognerebbe sostituire i soldati forestieri con 20.000 uomini validi e ben retribuiti (ibid., p. 326), ricostruire l’ospedale degli infermi, il Monte di pietà e la scuola pubblica, e rendere fluida la navigazione per Venezia, come lo è quella da Udine, a spese della Patria del Friuli, per evitare i contrabbandi e facilitare eventuali soccorsi.
Incaricato delle trattative di pace in Levante dopo il rifiuto del provveditore Andrea Valier, prima di partire, il 27 ag. 1668 il M. fece testamento, cui allegò la nota dei quadri, statue, arazzi e argenti da vendere per pagare i debiti, ancora consistenti. Lo completerà con il codicillo del 2 maggio 1669, spedito dalla Canea, in cui raccomandava ai figli Vincenzo, Lorenzo, Alessandro di aiutare Gerolamo, residente a S. Cassiano, sposato con Laura Pisani.
Ai primi di novembre 1668, a Larissa, furono respinte dal caimacan, rappresentante del visir, le sue proposte: restituzione di Clissa e delle terre della Dalmazia occupate dai Veneziani durante la guerra, una pensione al Gran Signore di 24.000 reali e un donativo di 200.000, ai Turchi la parte orientale dell’isola di Candia, ai Veneziani l’occidentale. Cacciato da Larissa, nel gennaio 1669 il M. arrivò alla Canea stremato, in difficoltà economiche, preoccupato per i continui rinforzi che arrivavano ai Turchi e per le sorti della fortezza di Palma. In marzo, fu portato a Candia, in vista della piazza assediata: le sue proposte furono respinte anche dal gran visir, che aveva interesse a non concludere la pace. Ai primi di aprile, confuso e afflitto, fu ricondotto alla Canea. Continuò a sperare nella vittoria cristiana fino al 2 maggio, quando arrivò il decreto del Senato del 9 marzo, confermato il 16 maggio, che interrompeva le trattative. Il M. temette per la sua vita: i Turchi, arrivati nuovi soccorsi, sembravano pronti ad attaccare in autunno. Il capitano generale Francesco Morosini il 6 settembre concluse la pace: cedette l’isola di Candia, eccetto le fortezze di Suda, Grabusa, Spinalonga, salvò in Dalmazia le conquiste fatte nel corso della guerra.
Il M. ebbe «agghiacciato il sangue nelle vene e riempito l’animo d’horrore e d’angoscie il cuore» (Dispacci, 15 sett. 1669): non pensava che il capitano fosse al punto di cedere la piazza e si preoccupò di non ricevere il biasimo del Senato. Chiese perciò di rimpatriare, ma il 18 ottobre fu nominato ambasciatore straordinario. Alla fine del mese incontrò Morosini, imbarcato davanti a Suda. Il 21 dicembre, sulla costa di Pesaro fece naufragio il vascello Redentore e morì il figlio Lorenzo, che portava «robe di pubblica ragione e private costosissime» (ibid., 3 febbr. 1670) e le lettere credenziali. Fu un colpo durissimo a lui e alla famiglia, gravata dai debiti. Il 2 marzo 1670, a Candia, con un seguito di 54 livree, fu ricevuto dal visir in udienza di complimento. Il 12 marzo in Maggior Consiglio fu nominato bailo, ma, ammalato, chiese la nomina di un sostituto. Il 21 maggio, dopo l’arrivo del nipote Alessandro Zen, ricevette il diploma che confermava e ratificava i capitolati della pace.
A Pera di Costantinopoli il 18 giugno trovò il bailaggio in cattive condizioni. Il 5 agosto ad Adrianopoli ebbe udienza dal sultano come ambasciatore straordinario, non bailo, per non dover presentare costosi regali. Propose la nomina di commissari per la difficile definizione dei confini in Dalmazia e con fatica ottenne lo scambio alla pari dei nobili prigionieri nelle Sette torri di Costantinopoli. Mentre si diffondeva di nuovo il pericolo di guerra e di peste, il 19 settembre tornò a Pera, afflitto dal mal della pietra e dalla gotta, nonché da mancanza di denaro. Riuscì a salvare la chiesa di Galata e a liberare parte degli schiavi comuni. In maggio 1671 si trasferì ad Adrianopoli: in pessimo stato fisico, non poté andare in udienza dal visir per trattare dei confini in Dalmazia, mandò al suo posto il nipote e il segretario Giovanni Cappello.
Tornato a Pera, ridotto all’estremo, il M. morì il 25 ag. 1671.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. ven., 27: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, V, cc. 235r-237r (Molin S. Caterina dal palazzo); G.A. Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, III, cc. 306r, 308r; Avogaria di Comun, Libro d’oro, Nascite, regg. 57/VII, c. 213r; 59/IX, cc. 212r, 226v, 232; 60/X, c. 226r; Matrimoni, reg. 91/4, c. 215r; Segretario alle voci, Elezioni in Pregadi, regg. 13, cc. 14v, 19v, 20v, 71r; 14, cc. 12v, 13r; 15, cc.11v, 13r, 19r, 61v; 17, cc. 5v, 6v, 36v, 43r, 113r, 130v; 18, cc. 1v-2r, 3v-4r, 4v-5r, 26v-27r, 33v-34r, 41r, 44v-45r, 54v, 70r, 74v, 90v, 92v; 19, cc. 118r, 119v; Elezioni in Maggior Consiglio, regg. 19, cc. 137v-138r; 20, c. 144v; 21, cc. 45v-46r, 163v-164r; 22, c. 159v; Archivio notarile, Testamenti, b. 152/48, 54; b. 766/20; Dieci savi alle decime, a. 1582, b. 171/930, 1173; a. 1661, Reggimenti, bb. 239 s., B.I, 226/17; Giudici di Petizion, Inventari, b. 410/75, 21;Consiglio dei dieci, Criminale, reg. 70, cc. 49v, 56v, 64v, 67v; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere dei rettori, Padova, b. 92, cc. 119r-126r, 128r-130r, 134r-138r, Terminazioni per la liberazione di banditi, b. 1/20; Arch. privato Correr, reg. 113, filze 114, 122; Senato, Corti, 1638, reg. 9, c. 195v (memoriali della reggente Maria Gonzaga); Senato, Terra, Deliberazioni, regg. 152, cc. 156v-158v, 170v., 171r; 153, cc. 418r, 433r, 445r; III, Secreta, Dispacci rettori, Padova, filze 48-49; Rovigo, filza 41; Secreta, Deliberazioni, Costantinopoli, reg. 32, cc. 1r-190r passim; Dispacci degli ambasciatori,Germania, filze 112-118; Costantinopoli, filze 153-155; Arch. proprio Costantinopoli, Copiario dispacci ambascitori e contabilità, regg. 23-25; Collegio V Secreta, bb. 14/37, cc. 1r-39r; 18; 45; Venezia, Civico Museo Correr, Misc. Correr, LIX/2325; Codd. Cicogna, IV, 178, 2854/9, cc. 48r-49r; V, 234 3014/2; Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., VII, 651 (=8580): C. Paganino, Diario della spedizione dell’Ill.mo et Ecc.mo Sig. A. da M. cavaliere alla Corte del Gran Signore, cc. 101r-138r; F. Pallavicino, Scena retorica. Consecrata all’illustriss. et eccellentiss. Sig. Alvise Molino, Venezia 1669, pp. 3 s.; A. Valier, Historia della guerra di Candia, Trieste 1859, pp. 294-297; Relazione degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, I, Bari 1912, pp. 201-227; Relaz. di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, II, Torino 1970, p. LII; IV, ibid. 1968, pp. 43-99; Relaz. dei rettori veneti in Terraferma, a cura di A. Tagliaferri, XIV, Milano 1979, pp. 323-342; B. Nani, Historia della Repubblica veneta, II, Venezia 1679, pp. 372-374; A. Da Mosto, I dogi di Venezia, Milano 1960, p. 468; A. Zorzi, Venezia scomparsa, II, Milano 1972, p. 463; Venezia e la peste 1348-1797, Venezia 1979, sch. 48 (Alvise, non Andrea); R. Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, I, Milano 1981, pp. 234 s.; K.M. Setton, Venice, Austria and the Turks in the XVIIth century, Philadelphia 1991, pp. 206-225; C. Boccato - M.T. Pasqualini Canato, Il potere nel sacro. I rettori veneziani nella Rotonda di Rovigo, I, Rovigo 2001, pp. 407-420; F. Bottacin, Tiberio Tinelli «Pittore e cavaliere» (1587-1639), Mariano del Friuli 2004, pp. 54, 118-121; D. Raines, L’invention du mythe aristocratique. L’image de soi du patriciat vénitien au temps de la Sérénissime, II, 1, Venezia 2006, pp. 281, 322 s., 333, 528 s.; Il collezionismo d’arte a Venezia, a cura di L. Borean - S. Mason, Venezia 2007, pp. 23, 43, 46, 60, 177, 181, 288 s.