BADOER, Alvise (Luigi)
Patrizio veneto, nacque da Arrigo verso il 1483 iniziò la vita pubblica esercitando le cariche di avvocato dei prigionieri e fiscale nelle Corti di palazzo, impratichendosi nella conoscenza delle leggi e affinando la sua eloquenza, che gli spianò la via degli onori e gli meritò larga fama, tanto che il Memmo nel suo dialogo L'oratore,pubblicato nel 1545, lochiamò "prencipe degli oratori" viventi in Venezia, accanto a Luigi da Noale. Per molto tempo esercitò l'avvocatura, finché ottenne nel 1531 la prima importante carica pubblica, con l'elezione ad avogadore di Comun straordinario, col compito di sindacare l'operato dei capi dell'esercito.
Con grande rigore pose in stato d'accusa e fece condannare per malversazione e peculato diversi gentiluomini di grande autorità e parentado, tra i quali il provveditore generale in campo Polo Nani, genero del doge Agostino Barbarigo, per il quale aveva proposto la pena capitale, Francesco Gritti pagatore in campo, e Giovanni Vitturi provveditore in Puglia, senza troppo preoccuparsi di rispettare quella tacita regola dell'omertà, che nella Repubblica di Venezia era condizione necessaria per avanzare negli onori. Forse anche per opera dei nemici procuratisi in tale occasione, uscito nel 1533 dalla carica di avogadore di Comun ordinario cui era stato successivamente eletto, rimase nell'ombra per alcuni anni, riuscendo solo a farsi eleggere tra i correttori alle leggi incaricati di togliere alcuni inconvenienti introdotti nelle Corti di Palazzo.
Il B. tornò alla ribalta nel 1537, quando, eletto senatore ordinario, si pose in luce come uno dei più autorevoli fautori della lega con l'imperatore, durante i drammatici dibattiti che divisero il patriziato veneziano sulla politica da seguire verso i Turchi dopo l'attacco a Corfù, e nei confronti di Carlo V e Francesco I, ciascuno dei quali sollecitava Venezia a schierarsi dalla propria parte.
I Consigli della Repubblica erano divisi in due partiti di forza quasi equivalente: uno dei quali, preoccupato soprattutto della Terraferma, nella convinzione che Venezia, pedina di un gioco assai più ampio, rischiasse di essere trascinata in una guerra per fini altrui, voleva cercare ad ogni costo la pace con i Turchi. L'altra parte invece, maggiormente sollecita del dominio marittimo, pensava che fosse giunto il momento di dare un colpo decisivo al tradizionale nemico. Questa politica il B. perorò con grande calore, contro l'opinione della maggioranza del Collegio. Decisa il 13 settembre in Senato con appena due voti di maggioranza l'adesione alla lega, cominciò la breve fortuna politica del B., che fu infatti eletto pochi giorni dopo savio di Terraferma.
Il 20 ott. 1537, mentre Francesco Giustinian con analoga missione andava presso Francesco I, il B. fu inviato a Carlo V, che allora si trovava in Spagna, nella discreta veste di inviato straordinario, senza l'apparato solenne dell'ambasciatore. Egli doveva stimolare l'imperatore alla pace col re di Francia, condizione essenziale per isolare i Turchi, ottenere il massiccio intervento di Carlo V ed evitare di far assumere alla lega un carattere antifrancese. Il B. svolse l'incarico durante il convegno di Leucades, e si trattenne ancora qualche tempo in Spagna, per ordine del Senato, ad affiancare l'ambasciatore Giovanni Venier. Concluse le trattative per la lega tra l'imperatore, il pontefice e la Repubblica di Venezia, stipulata a Roma l'8 febbr. 1538, e avviati i preparativi per il congresso di Nizza, il B. prese la via del ritorno alla fine di marzo, giungendo a Venezia in aprile.
Poco dopo fece al Senato la relazione, in cui sostenne che l'imperatore era "inclinatissimo" all'impresa, ed era deciso anche di andare fino a Costantinopoli; solo ostacolo era lo stato di guerra con la Francia, a causa del quale per quell'anno bisognava rimanere sulla difensiva. Tuttavia Carlo V assicurava che poi si sarebbero recuperate le posizioni eventualmente perdute. Ma il doge Andrea Gritti, che era stato contrario alla guerra, ribatté, con maggiore realismo, che, nonostante queste ottimistiche previsioni dell'ambasciatore, era meglio predisporre ogni cosa come se Venezia dovesse da sola sostenere tutto il peso del conflitto.
Nel medesimo anno, poiché diverse importanti fortezze dalmate erano cadute in mano al nemico, fu deliberato di nominare un provveditore generale in Dalmazia con autorità superiore a tutti, fuorché al governatore generale Camillo Orsini, e con l'obbligo di partire entro tre giorni e di non uscire da Zara, particolarmente minacciata, senza licenza del Senato. A tale carica fu eletto il B. da poco tornato dalla Spagna, il quale, sebbene nuovo a simili prove, accettò. Invero la sua elezione voleva avere più che altro una efficacia morale, per rassicurare quelle spaventate popolazioni. La direzione effettiva delle operazioni militari rimase nelle mani dell'Orsini, ma il B. non mancò di coadiuvarlo con energia, particolarmente nella presa del castello di Obrovazzo, organizzando, per commissione del Senato, la difesa di Sebenico, e sostenendo la necessità di abbandonare la tattica difensiva. Quando, sul principio del 1539, rientrò a Venezia, propugnò una strategia più audace, sostenendo in Senato che si dovesse tener l'armata fuori del golfo. Subito dopo fu eletto ancora savio di Terraferma, e, profilandosi la crisi di Camerino in seguito alla morte del duca di Urbino (21 ott. 1539), fu mandato a ispezionare le mostre delle genti d'arme e le fortezze in Terraferma.
Ma gli animi erano ormai profondamente sfiduciati verso la lega, e propensi a ricercare la pace con i Turchi. Quando, sul principio del 1539, Carlo V comunicò che anche per quell'anno era necessario rimanere sulla difensiva, Venezia, con le finanze esauste e i commerci interrotti, comprese che era giunto il momento di pensare a se stessa. Il B. si schierò con la maggioranza del patriziato, favorevole ora alla pace coi Turchi, pronunciando in Senato una veemente orazione in favore dell'invio d'un ambasciatore a Costantinopoli per intavolare le trattative. Toccò proprio al B. di essere eletto il 27 dic. 1539 a subentrare all'ambasciatore Tommaso Contarini, che aveva avviato senza successo i primi negoziati.
La commissione del Senato lo autorizzò ad offrire ai Turchi, in cambio delle città di Nauplia e Malvasia, da questi reclamate, una pensione annua da 4000 fino a 8000 zecchini, e inoltre, se fosse stato necessario, una indennità di 300.000 ducati, da pagare nel più lungo tempo possibile. Poteva giungere alla cessione delle isole di Tine e Nasso; ma doveva ottenere la restituzione delle isole di Paro, Nanfio, Stampalia e Amorgo, infeudate a patrizi veneti e occupate dai Turchi durante la guerra, nonché l'isola di Scarpanto, che si era ribellata per intelligenza col governatore di Rodi. Avrebbe dovuto offrire ai pascià, per ingraziarseli, donativi fino a 50.000 ducati e al Barbarossa da 25 a 30.000 ducati. Il Senato gli dava inoltre mandato di ottenere la libertà di esportare frumento dai porti dell'impero turco, dai quali dipendeva normalmente l'approvvigionamento di Venezia: ragione non ultima che aveva spinto la Repubblica, colpita in quell'anno da una terribile carestia, a intraprendere le trattative di pace. Ma il B., partito sollecitamente, ricevette per via una nuova commissione, deliberata in gran segreto il 15 genn. 1540 dal Consiglio dei Dieci e Giunta, che lo autorizzava in caso estremo a cedere una delle due città di Nauplia e Malvasia; e, quando avesse visto che diversamente la conclusione della pace "fusse del tutto disperata", ambedue le città.
Giunto a metà aprile a Costantinopoli, il B. cominciò i negoziati il 25. Subito si scontrò con la intransigenza dei Turchi, sicuri di poter ottenere il massimo delle loro richieste, essendo a conoscenza delle istruzioni segrete dell'ambasciatore veneziano. Il tradimento fu scoperto soltanto due anni dopo: Costantino e Nicolò Cavazza, segretari del Consiglio dei Dieci e del Senato, e altri complici, avevano venduto all'ambasciatore del re di Francia a Venezia le copie delle commissioni del Senato e del Consiglio dei Dieci, che, per il tramite dell'ambasciatore francese a Costantinopoli, erano state trasmesse successivamente al sultano.
Il B. dapprima offrì un'indennità di 100.000 zecchini, che aumentò progressivamente fino a 350.000. Sopra quest'ultima offerta i pascià si consultarono col sultano, e infine chiesero una somma maggiore e in più Nauplia e Malvasia. Allora il B. ricorse ai buoni uffici dell'ambasciatore di Francia, offrendo 300.000 ducati di indennità e 3000 di pensione annua invece di Nauplia. Gli fu risposto che anche offrendo somme maggiori non avrebbe ottenuto nulla: doveva lasciar intendere subito se consentiva a cedere Nauplia e Malvasia, oppure rompere le trattative. Il B. chiese due giorni di tempo, e poi tornò ad offrire una pensione in cambio delle città. Infine, posto di fronte a una nuova richiesta ultimativa, dovette accettare il 4 maggio le condizioni imposte dai Turchi: cessione di Nauplia e Malvasia, oltre alle isole dell'Egeo già perdute durante la guerra, e pagamento di una indennità di 300.000 ducati. Le dure condizioni, apprese nello stesso mese a Venezia, suscitarono grande commozione, ma il Senato, rassegnandosi all'inevitabile, approvò l'11 giugno l'operato dell'ambasciatore. Le trattative per la definizione dei capitoli si protrassero ancora per alcuni mesi, dovendosi resistere a nuove richieste e insidiose modificazioni che i negoziatori turchi cercavano di apportare al testo degli accordi.
La pace fu firmata soltanto il 2 ott. 1540, salvando al dominio veneziano la città di Parga e l'isola di Tine, per l'energica resistenza opposta dal B. alle pretese avanzate fino all'ultimo dai pascià. Il Senato ratificò il trattato il 20 novembre, dando atto al B. che esso era conforme alle istruzioni dategli.
La "pace vergognosa", che Venezia subì come una dolorosa necessità, segnò la disgrazia politica del B., al quale l'opinione pubblica veneziana, ancora ignara del tradimento, rimproverava di aver ceduto subito senza resistere a tutte le pretese turche. Di questa ondata d'impopolarità è forse frutto un procedimento iniziato contro di lui in quel tempo dai Sindaci in Dalmazia Francesco Pisani e Andrea Loredan, che lo accusarono di malversazioni durante il suo provveditorato in Dalmazia. Non fu neppure rieletto al Senato, condividendo la sorte di molti altri responsabili della politica veneziana di quegli anni. Il B. rimase ancora a Costantinopoli e ritornò a Venezia verso la metà del 1542. Nell'agosto dello stesso anno fece la relazione al Senato, dichiarando apertamente che i Turchi conoscevano le sue commissioni. Vedendo poi che era stato decretato il suo arresto per le accuse relative al provveditorato in Dalmazia, dalle quali poi uscì assolto, e che si trovava in disgrazia presso tutto il patriziato, decise di lasciar da parte ogni prudenza e di provocare un'inchiesta, rivelando agli inquisitori del Consiglio dei Dieci che i Turchi erano stati informati dagli agenti francesi, che avevano avuto la copia delle commissioni dai segretari. Scoperto il tradimento, l'operato del B. apparve sotto una diversa luce. Ma il suo nome rimaneva tuttavia legato all'infausta pace, anche se nessuna responsabilità poteva più essergli imputata. Il B. fu eletto una volta censore nel 1545: carica onorifica, ma priva d'importanza. La sua carriera politica era ormai irrimediabilmente stroncata, ed egli si ritirò a vita privata. Fu eletto ancora nel 1553 tra i regolatori delle leggi di Palazzo, e poco dopo morì, il 7 genn. 1554.
Fonti e Bibl.: Notizie biografiche complessive in Venezia, Bibl. Correr, G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio..., I, Cod. Cicogna 3781, pp. 36-37 (altra copia in Oesterreichische Nationalbibliothek, Vienna fondo ex Foscarini,cod. 6093); nella lettera di Ludovico Dolce a Federico Badoer del 3 apr. 1542, in Della nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi huomini...,a cura di B. Pino, Venezia 1582, lib. II, pp. 206-214; cfr. anche ibid.,pp. 99-108, lettera di B. Daniello allo stesso, Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti,I,p. 75. Cfr. anche G. M. Memmo, L'Oratore,Venezia 1545, p. 62. Fino al 1533 cfr.: M. Sanuto, Diarii,XXIV-LVIII, Venezia 1889-1903, passim. Della sua attività nel triennio 1537-40 scrivono: P. Paruta, Historia Vinetiana,Venezia 1718, VIII, pp. 714 s., 719; IX, pp. 44 s.; X, pp. 113-115; A. Morosini, Historia Veneta,Venezia 1719, V, pp. 465 s., 504, 537; VI, pp. 576-579; S. Romanin, Storia documentata di Venezia,Venezia 1914, VII, pp. 56-66; C. Capasso, Paolo III,Messina-Roma 1924, II, pp. 40-46; L. Bonelli, Il trattato turcoveneto del 1540, in Centenario della nascita di M. Amari, Scritti...,II,Palermo 1910, pp. 332, 335, 348 n., 351 n., 361. La fonte più importante è a Venezia, Bibl. Marciana, F. Longo, Commentari della guerra del 1537 con Sultan Solimano, ms. Ital., VII, 785 (7292), particolarmente c. 31 v-32 r, 97 v-98 r, 99 v; cfr. anche nello stesso cod.: Successo di quelli Secretarii del Consegio di Dieci et de Pregadi che rivellorno li secretti al Sig. Turco,c. 110 r. Dei medesimi Commentari dei Longo, da un'altra copia che trovasi a Vienna nel cod. Foscarini 6161, ha pubblicato larghi estratti, riguardanti il Provveditorato in Dalmazia, S. Liubié, in Monumenta spectantia historiam Slavorum meridionalium, VIII, Commissiones et Relationes Venetae,II,Zagrabriae-Zagreb 1877, pp. 113-131 (del B. a pp. 122 s., 126, 131); nello stesso volume a pp. 136-144 è pubblicato l'importante dispaccio del B. da Costantinopoli dell'8 ott. 1540. Di eguale importanza è la lettera del 6 ott. 1540, in Arch. di Stato di Venezia, Lettere di ambasciatori al Senato, Costantinopoli,filza I A, n. 6; di minore interesse i dispacci conservati nello stesso Archivio, Capi del Consiglio dei Dieci, Lettere di ambasciatori,B. 1, nn. 142-152; B. 12, n. 112.