GIGLIOLI (Gilioli), Alfonso
Nacque a Ferrara nel 1574 dal conte Scipione, di famiglia patrizia che anticamente si denominava dei Pellizzari, o Pellicciari. Zio paterno del G. era Girolamo Giglioli, ambasciatore residente di Alfonso II d'Este, e poi di Cesare d'Este a Firenze e a Roma.
Il legame della famiglia Giglioli con Firenze, iniziato al tempo della Repubblica e stabilitosi durante il principato mediceo (nel 1430, con un antenato, Iacopo, la famiglia era stata cooptata tra i cittadini fiorentini e da lui discendeva il ramo di Carlo di Giovanni di Carlo, registrato nel 1597 come abitante nel quartiere di S. Giovanni), ebbe un peso non secondario nella carriera prelatizia del G. al momento della sua nomina a nunzio pontificio in Toscana. Prima di allora i luoghi e le tappe della sua formazione culturale ebbero come centro la corte estense, in anni in cui Ferrara vantava ancora un'intensa attività accademica: il G. fu aggregato all'Accademia Partenia, di impronta gesuitica, e vi ricoprì la carica di principe. Della produzione accademica sono testimonianza orazioni e discorsi, ancora inediti, a parte un'orazione funebre per Fabrizio Gentina, data alle stampe nel 1591 (Ferrara, tip. B. Mamarelli). In omaggio a questi interessi umanistici, il frate Giacomo Mercati, del monastero benedettino di Fabriano, dedicò al G. la traduzione latina delle epistole del sofista Libanio (Firenze, Bibl. nazionale, Magliabechiano VIII.1394: la dedica alla c. 2).
Un riconoscimento letterario potevano vantare anche il padre del G., Scipione, eletto giudice de' Savi nel 1598 dopo la devoluzione di Ferrara alla Chiesa, e uno zio, Ercole, membro del Consiglio di Ferrara (di cui faceva parte pure un terzo fratello, Girolamo). Scipione ed Ercole figurano, infatti, tra i protagonisti dei Discorsi del ferrarese Annibale Romei, unito da legami di parentela con i Giglioli per aver sposato nel 1562 una Giulia Giglioli. Editi una prima volta a Venezia nel 1585, i Discorsi compendiavano, attorno ai temi dell'amore, dell'onore, della nobiltà e della filosofia, i motivi portanti della conversazione colta tardorinascimentale, sebbene fossero recepiti nel secolo successivo soltanto come testo emblematico della scienza cavalleresca.
Il fratello del G., Ippolito, seguì le orme degli zii Ercole e Girolamo, entrando nel Consiglio cittadino; dal 1617 fu ambasciatore della Municipalità a Roma. Il G., invece, perseguì la carriera prelatizia, iniziando nel 1599 come protonotario apostolico, cameriere segreto e familiare di Clemente VIII, dal quale era stato concesso con speciale privilegio perpetuo che tra i dodici auditori della rota romana dovesse esserci un ferrarese. Dopo un'ambasceria presso la corte del duca di Urbino, l'11 genn. 1603 il G. divenne governatore di Camerino, nel 1608 referendario delle due Segnature e, dopo avere acquistato nel luglio 1615, per 13.000 scudi, l'ufficio delle contradette, prelato di Consulta. Finalmente, dopo vari tentativi andati a vuoto, il 17 giugno 1619 riuscì a ottenere da Paolo V il vescovato di Anglona-Tursi nel Regno di Napoli, le cui entrate ammontavano a 6000 ducati napoletani, che si andavano ad aggiungere ad altri benefici accumulati in precedenza, tra cui 300 scudi d'oro provenienti dalla mensa del vescovato di Ferrara.
La città di Anglona, anticamente Aquilonia, distrutta dal 1546, aveva spostato la sede della curia episcopale nel castello di Chiaromonte, servendosi come cattedrale della chiesa di S. Maria dell'Annunciazione di Tursi, suffraganea della diocesi di Matera. Altri due ferraresi, Giulio Grandi e Niccolò Grana, erano stati vescovi di Anglona nel XVI secolo, senza peraltro mai risiedervi, considerandolo un beneficio meramente funzionale a incarichi curiali, quali legazioni e nunziature.
Della piccola diocesi della provincia lucana, il G. non mancò di stendere una relatio ad limina, indirizzata al pontefice Gregorio XV, rilevando per prima cosa la necessità di interventi sull'unico edificio superstite di Anglona, la chiesa cattedrale intitolata alla Natività di Maria Vergine, nella quale si venerava un'immagine miracolosa, custodita da due cappellani e meta di pellegrinaggio da parte degli abitanti delle terre circonvicine.
Le ambizioni di carriera del G. furono coronate nel 1622, quando Gregorio XV lo nominò alla nunziatura di Firenze al posto di Innocenzo Massimi, vescovo di Bertinoro, inviato dal pontefice alla nunziatura di Spagna. La nunziatura del G., durata fino al 1630, cadeva in un momento particolarmente delicato per la situazione interna del Granducato di Toscana. Lo Stato era governato con fermezza da Cristina di Lorena, vedova del granduca Ferdinando I, e dalla nuora Maria Maddalena d'Austria, vedova del granduca Cosimo II, in attesa della maggiore età del principe Ferdinando de' Medici, futuro Ferdinando II, ma motivi d'inquietudine erano generati dalla congiuntura politica internazionale, dominata dalla guerra dei Trent'anni. I Francesi, infatti, avevano ricondotto la Valtellina sotto il governo protestante della Lega svizzera dei Grigioni e avevano lasciato provvisoriamente al papa alcune piazzeforti conquistate dalla Spagna, al fine di evitare una guerra ulteriore. Oltre a occuparsi di queste vicende internazionali, il G. intervenne sui rapporti Chiesa-Stato in materia di giurisdizione, nonché in materia di fede e di comportamenti sociali, affrontando contenziosi rivendicati di volta in volta dai tribunali dell'Inquisizione toscana e romana, dal tribunale dello stesso nunzio e da quello delle curie episcopali del Granducato. Una ricca fonte di informazione su questi maneggi è costituita dal cospicuo carteggio tenuto dal G. con i cardinali nepoti Alessandro Ludovisi e Francesco Barberini, con i cardinali C. de' Medici, C. Pio, B. Bevilacqua, L. Magalotti, R. d'Este, F. Sacrati, G.G. Millini, con altri prelati, principi, ministri e personaggi diversi, laici ed ecclesiastici.
Nelle istruzioni del maggio 1622 date al G. da Gregorio XV appare preminente l'intento di fare della nunziatura toscana, secondo una tradizione diplomatica ormai consolidata, un osservatorio privilegiato, aperto a filtrare le "notizie del mondo che qui alle volte più prestamente si odono e secondo il giudizio d'uomini sottili ed avvedutissimi sempre si considerano". In particolare, si raccomandava al G. di vigilare sulla difesa dell'immunità ecclesiastica, dato che i prelati toscani, beneficiati dai Medici e "allevati in un certo timore più che reverenziale" verso di loro e verso i loro ministri, guardavano di più "agli interessi de' parenti e delle case loro" che a quelli del proprio ufficio e dignità. Si faceva, inoltre, presente che il G. avrebbe potuto contare sull'arcivescovo di Pisa Giuliano de' Medici, su quello di Firenze Alessandro Marzi de' Medici, nonché su quello di Siena Ansaldo degli Ansaldi, considerato un pastore zelante, da portare a modello per gli altri. Altri punti già indicati a suo tempo come importanti al nunzio Massimi erano la riscossione delle decime ecclesiastiche, la composizione degli "spogli", la questione annosa delle acque della Chiana che scorrevano verso Firenze e Roma. Ma, più di ogni altra cosa, si poneva come urgente l'intervento del G. nel convincere i Medici, in nome della loro linea di neutralità, a farsi mediatori presso i duchi di Mantova nel pericoloso contrasto scoppiato con i Savoia a proposito del possesso del Monferrato.
Giunto a Firenze nella notte del 29 ag. 1622, il G. constatava con piacere di essere stato ricevuto con "amorevolezza et honorevolezza straordinarij né soliti con gli altri nunzi" (Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, s. 1, filza 164, cc. 2-5); altrettanto favore gli dimostrò l'ambasciatore mediceo alla corte di Roma Francesco Niccolini. In realtà, la condotta del G. fu subito, anche se in maniera dissimulata, piuttosto avversa agli interessi dei Medici, che nel 1623 cercarono invano uno sbocco strategico verso il mare Adriatico, entrando in possesso del Montefeltro, feudo imperiale, attraverso il matrimonio di Vittoria Della Rovere, figlia di Federico Ubaldo duca di Urbino e di Claudia de' Medici, con il futuro granduca Ferdinando II. Negli intendimenti dei Medici, il feudo avrebbe dovuto fare parte dei beni concessi in dote a Vittoria, in opposizione ai diritti rivendicati da Urbano VIII sul Ducato di Urbino rimasto privo di successori legittimi. Il negozio fu trattato in un primo momento dalla stessa Cristina di Lorena, ma si concluse a favore del papa, che si mostrò molto grato al G. per la funzione avuta in tutta la vicenda (Arch. segr. Vaticano, Nunziatura Firenze, 16, cc. 1-101).
Fin dal suo arrivo a Firenze il G. continuò a mantenere contatti con i parenti di Ferrara, in particolare con la cognata Costanza Bevilacqua Giglioli e con il nipote Francesco. Questi, tra il 1624 e il 1629, seguì sia da Ferrara sia da Roma gli interessi dello zio presso i cardinali Pio, Medici, Magalotti e il cardinal nepote A. Barberini, in vista di una promozione del G. al cardinalato (Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, s. 1, 162 e 181, passim), ma già dall'elezione al soglio pontificio di Urbano VIII (1623), frate Felice Franchini da Cascia, uno dei protagonisti del negoziato di Urbino, aveva fatto sapere al G. che il cardinale Barberini lo giudicava "troppo buono per Firenze" e più utile nella nunziatura che altrove.
L'azione del G. non fu sempre in sintonia con la corte toscana, quando si andavano a ledere privilegi e consuetudini che i Medici mantenevano in vita senza badare alle implicazioni che potevano avere per la religione cattolica. Per esempio, quando, nel 1624 furono incarcerati alcuni sospetti di ebraismo, tra cui figuravano gli auditori della rota fiorentina Antonio Diaz Pinto e Tommaso Enriquez, il G. chiese clemenza per gli arrestati al cardinale Barberini e al papa, dato il ruolo pubblico degli inquisiti e il turbamento provocato in città dalla loro detenzione (Arch. segr. Vaticano, Nunziatura Firenze, 16, c. 104). Ma il G. si trovò ad affrontare altre questioni delicate, sintomatiche di una situazione ancora molto fluida nei rapporti Chiesa-Stato: un omicidio avvenuto nel 1622 nell'eremo di Camaldoli, proprio quando si tentava di sottrarre l'eremo all'unione con la Congregazione di Monte Corona, sempre avversata dai Medici; l'arresto di Maddalena Palagi e Margherita Serchia da Certaldo, accusate di stregoneria (in questa occasione il G. difese le ragioni del cardinal Millini: Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, s. 1, 186, cc. 95-97: lettera del Millini al G. del 21 marzo 1626) e della congregazione del S. Uffizio contro il giudice criminalista Antonio Cospi e altri ministri laici fiorentini.
Sulle entrate dell'Inquisizione fiorentina il G. stese per Gregorio XV una minuziosa relazione, segnalando una situazione bisognosa, a suo avviso, di provvedimenti. Vi era evidenziata la sempre maggiore importanza che si attribuiva in quegli anni al ruolo dei tribunali periferici dell'Inquisizione contro gli eccessi sopracitati e nello stesso tempo a favore di un'azione capillare contro la diffusione di eresie e comportamenti morali ritenuti illeciti, quali bestemmia, concubinato, casi di affettata santità e altri. Poco fortunato fu l'intervento del G., più volte sollecitato da Gregorio XV e da Urbano VIII attraverso i cardinali L. Ludovisi e O. Bandini, per ottenere in dono dai Medici i Vangeli arabici da loro posseduti e i pregiatissimi caratteri della tipografia orientale creata dal granduca Ferdinando I. I caratteri tipografici, in particolare, dopo l'istituzione della congregazione di Propaganda Fide nel 1622, erano ambiti a Roma per la stampa del catechismo di R. Bellarmino tradotto in lingua araba. Per dimostrare ancora una volta il suo zelo, il G. cercò di ovviare ai rifiuti incontrati alla corte toscana, offrendo di far stampare a Firenze, a sue spese, con i caratteri della tipografia medicea, almeno la Dottrina piccola del Bellarmino, che, secondo le direttive di Roma, si prevedeva dovesse essere distribuita tra i cristiani copti, armeni e persiani in numero di 1500 esemplari (ibid., 185, cc. 442-443: lettera del card. Ludovisi al G. del 6 ott. 1625). Da approfondire, alla luce dell'epistolario del G., resta il ruolo da lui avuto nel primo processo a Galileo Galilei, che, a un primo esame della corrispondenza, sembrerebbe non essere tra gli argomenti ricorrenti.
La nunziatura del G. si concluse con la sua morte, avvenuta a Firenze il 24 marzo 1630, mentre si apprestava a visitare la diocesi di Anglona. Il 23 giugno di quell'anno fu sepolto nella chiesa della Ss. Annunziata di Firenze nel sepolcro dei Gonzaga.
Fonti e Bibl.: La carriera curiale del G. è documentata dai fondi dell'Arch. segr. Vaticano citati da K. Jaitner, Die Hauptinstruktionen Gregors XV für die Nuntien und Gesandten an den europäischen Fürstenhofen 1621-23, Tübingen 1997, I, pp. 277-279; II, pp. 882-889; la corrispondenza relativa alla nunziatura si trova in Arch. segr. Vaticano, Nunziatura Firenze, 16, 17, 18, mentre il resto del carteggio del G. è conservato all'Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, s. 1, filze 162-191; materiale concernente l'attività del tribunale della nunziatura, atti civili e criminali, commissioni, lettere, remissorie ecc., è conservato nel medesimo Archivio, fondo Tribunale della Nunziatura.
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