FERRI (Ferro), Alfonso
Nacque con ogni probabilità agli inizi del '500 a Napoli (anche se alcuni autori lo dicono nato a Faenza) e si addottorò in arti e medicina, approfondendo nel contempo la pratica della chirurgia. Portata a compimento la sua formazione, cominciò a esercitare la professione di medico-chirurgo e, stando alla sua stessa testimonianza, esercitò l'insegnamento pubblico e privato sia a Napoli sia a Roma (De caruncola, Praefatio, p. 99). A Roma, infatti, fu chiamato nel 1535 per curare Paolo III Farnese e insegnare all'università.
Il suo insegnamento nell'università romana fu discontinuo. Secondo quanto attesta ciò che rimane dei rotuli universitari, il F. insegnò sicuramente a Roma nel 1535, 1539, 1542, 1548 e 1549. Il rotulo del 1552, estremamente lacunoso, manca del nominativo del docente di chirurgia; una probabile ragione è che il F. all'epoca fosse al seguito delle truppe imperiali, come era già accaduto nel 1543. Il seguito non è chiaro: in un memoriale del 1557 sottoscritto da tutti i professori dello Studio di Napoli per chiedere un aumento dello stipendio si trova, infatti, anche il suo nominativo. È molto probabile che di ritorno dalla campagna di Ungheria il F. sia rientrato e abbia insegnato per un certo periodo nella sua città natale per poi ritornare a Roma. Infatti il suo nome ricompare, in qualità di lettore di chirurgia, nei rotuli romani del 1559 e del 1561. Sicuramente in quest'epoca il suo insegnamento fu esclusivamente di chirurgia dal momento che, dopo il 1552, per volere di Giulio III, la cattedra di anatomia fu separata da quella di chirurgia. È importante ricordare che il F. affiancava a tale attività anche la funzione di archiatra pontificio e tale rimase ancora sotto il pontificato di Pio IV. È fama che questo papa, avendo letto le opere di Avicenna e dei medici della scuola salernitana, amava disputare con i medici, tra cui anche il Ferri.
A Roma, nel 1537, per i tipi di A. Blado, pubblicò la sua prima opera, De ligni sancti multiplici medicina et vini exhibitione, dedicata a Paolo III.
Divisa in quattro parti (De ligni sancti natura et preparatione, De aggritudinibus a capite ad pedes, De morbo gallico, De vini exhibitione), l'opera analizza le proprietà del legno di guaiaco, una pianta proveniente dal Nuovo Mondo, propriamente dalla Florida, e considerata, all'epoca, rimedio nuovo per molte malattie, come si sofferma a mostrare l'autore, e in particolare per la cura della sifilide. Il F., alla luce della teoria umorale allora vigente, considera il guaiaco di natura calda e secca e dunque in grado di contrastare tutte le patologie caratterizzate da umori freddi e flegmatici: dalle bronchiti alla gotta, all'epilessia, al "mal francese". Nell'ultima parte il F. si sofferma ad analizzare le proprietà del vino, in particolare di quello in cui è stato concotto il legno santo. L'opera ebbe una notevole diffusione in Italia e all'estero: nel 1538 fu stampata a Basilea e a Parigi; nel 1539 fu di nuovo edita a Parigi insieme all'opera di G. Fracastoro Syphilis sive de morbo gallico e più volte ristampata (1540, 1542, 1543, 1547, anno in cui fu stampata anche a Lione). Una traduzione francese, di N. Michel, fu pubblicata nel 1540 a Poitiers, dove fu ristampata nel 1546 e, negli stessi anni, a Rouen. Una traduzione tedesca fu edita a Strasburgo nel 1541 e nel 1559 e, a Dresda, nel 1584.
Nel 1552 il F. pubblicò a Roma presso la tipografia di Valerio e Luigi Dorico, raccolti in volume unico, i suoi trattati più noti: il De sclopetorum sive archibusorum vulneribus e il De caruncola sive callo, quae cervici vescicae innascitur opusculum.
Il De sclopetorum ... liber, cui segue il breve Corollarium de sclopeti ac similium tormentorum pulvere, compendia tutti gli studi del chirurgo sulle ferite d'arma da fuoco ed è senza dubbio la sua opera più originale. Il trattato, quanto mai attuale in un'epoca in cui le guerre continue laceravano non solo l'Italia ma l'intero continente, è diviso, in tre parti in cui si analizzano i diversi tipi di ferite, la diversa sintomatologia e il trattamento terapeutico, dal punto di vista sia chirurgico sia medico.
L'importanza e la fortuna del trattato sono legate soprattutto all'inquadramento sistematico della tipologia delle ferite da armi da fuoco e al relativo trattamento medico-chirurgico, che ben si inserisce nel clima di rinnovamento scientifico caratterizzante la ricerca medica rinascimentale ma che, certamente, si accompagna ad una specifica maestria tecnica dell'autore. Tuttavia il F. non superò il pregiudizio, consolidato nella tradizione, della "velenosità" delle ferite, attribuita non già al sopravvento dell'infezione ma ad una velenosità propria della polvere da sparo che, secondo il ragionamento dell'epoca, essendo nociva nel caso fosse assunta per via orale, doveva esserlo altrettanto al contatto esterno. L'opera fu stampata più volte, sia singolarmente (Lugduni 1553, Francofurti 1575) che associata ad altri saggi sullo stesso argomento di B. Maggi, G. F. Rota e L. Botallo (De sclopetorum et tormentariorum vulnerum natura et curatione, libri IIII, Venetiis 1566; De curandis vulneribus sclopetorum tractatus...,Antverpiae 1583), oppure unita ad altre opere di carattere chirurgico (C. Gesner, Chirurgia. De chirurgia scriptores optimi, Tuguri 1555; P. Uffenbach, Thesaurus chirurgiae, Francofurti 1610).
Nel Corollarium il F. fa cenno ad ulteriori osservazioni sulle ferite d'arma da fuoco compiute sul campo quando, evidentemente, era al seguito delle truppe imperiali ("...in campania honorate stipendia mereretur...", p. 94). L'autore, infatti, fa due brevi riferimenti: l'uno ad un soggiorno in "Pannonia" l'altro all'assedio di Landrecies, cittadina fortificata della Francia settentrionale. Nel primo caso il riferimento è con ogni probabilità alla guerra di Transilvania del 1551-52, tra le truppe di Ferdinando d'Asburgo e l'armata turca. A riprova è la citazione che il F. fa delle ferite che riportò il "vinglengranda Hispano Duce" (p. 95), cioè del capitano imperiale Vigliandrando che, come ricorda A. Centorio degli Hortensii nel suo Commentario della guerra di Transilvania (Venezia 1565, p. 124), nell'ottobre 1551, durante l'assedio della città di Lippa occupata dai Turchi, riportò gravi ferite. Il secondo si riferisce all'assedio di Landrecies, nel 1543, quando la piazzaforte francese fu vanamente assediata dall'esercito imperiale sotto il diretto comando di Carlo V. Molto probabilmente il F. in qualità di medico era al seguito del generale G. B. Castaldo, che fu presente sia all'assedio di Landrecies sia alla guerra di Transilvania come comandante di tutte le operazioni. Fu evidentemente grazie a queste esperienze dirette di almeno un decennio che il F. ebbe modo di approfondire un tipo di traumi totalmente ignoto alla medicina precedente l'epoca delle armi da fuoco e trarne spunto per una trattazione chiara e sistematica.
Annesso al saggio sulle ferite d'armi da fuoco vi è il De caruncola, opera in cui l'autore mostra accurate competenze nel campo dell'anatomia e patologia dell'apparato unitario: dapprima descrive accuratamente il collo della vescica, il veru montanum, e la prostata, in seguito analizza il fenomeno dell'iscuria, cioè il restringimento uretrale accompagnato da dolore e assenza di minzione. La causa di questa patologia viene individuata sia nella formazione di una escrescenza callosa interna alla vescica, appunto la caruncola, sia nell'ipertrofia della prostata, dovuta, secondo il F., ad un flusso sproporzionato di flegma nell'organo che, conseguentemente, degenera. Con approccio più da chirurgo che da clinico, per risolvere le infiammazioni, gli ascessi e le ulcerazioni della vescica l'autore suggerisce interventi meccanici, come l'uso di sonde, composte non solo di metallo ma anche di erbe curative quali steli di malva, di finocchio, di prezzemolo, cosparsi di unguenti a base di verderame o arsenico con aggiunta di calce viva. Tali riflessioni sull'applicazione delle sonde costituiscono la parte più originale dell'opera e, sostiene Portal, rendono il F. degno dei più grandi maestri del secolo. Nella prefazione, dedicata a F. Archinto, l'autore sostiene di essersi occupato di tali argomenti già da cinque anni e di essersi deciso a pubblicare l'opera a seguito di diverse sollecitazioni. Secondo diversi biografi, fra cui il Marini, tali affermazioni fugano ogni possibile sospetto di plagio, ipotizzato, al contrario, dallo storico spagnolo F. X. Lampillas, che, nel suo Saggio storico-apologetico della letteratura spagnola, sostiene che il primo studio originale sulla patologia della vescica debba essere attribuito al medico spagnolo A. Laguna, autore di un'opera sull'argomento pubblicata nel 1551 (Methodus cognoscendi extirpandique excrescentes in vesicae collo caruncolas, s. l. s. e.). Ma, per la maggior parte degli autori, tra cui Portal, èpiù facile il contrario e cioèche il giovane Laguna, che aveva compiuto i suoi studi a Bologna e a Roma quando il F. aveva già raggiunto il massimo della notorietà, abbia plagiato il maestro napoletano. In ogni caso l'uso delle sonde per la cura delle occlusioni uretrali era pratica diffusa in Italia già prima della pubblicazione di tali opere.
L'insegnamento del F. a Roma proseguì fino al 1561. Si era candidato ancora nel 1560, come archiatra di Pio IV e, non ottenuta la carica, rientrò a Napoli, dove continuò attività didattica e, a partire dall'ottobre 1572, in sostituzione di E. Tarantino, fu lettore di chirurgia presso l'ateneo napoletano fino all'anno 1588-89.
Dal 1552 non risultano altre sue pubblicazioni, se non le ristampe delle opere già edite. Tuttavia, secondo il Moroni, si occupò com'era regola dei medici delle proprietà delle acque termali. In realtà lo storico attribuisce erroneamente al F. un'opera dedicata alla cura della gotta e alle proprietà salutari di una fonte presso Trevico, città vescovile dell'entroterra beneventano, confondendo il F. con Donato Antonio Ferro, autore di un saggio intitolato De podagra enchiridion, edito a Napoli nel 1585.
Incerte sono le notizie sulla sua vita privata: il Tafuri sostiene che divenne prelato, mentre il Marini, sulla base di un breve di Paolo III del 23 ott. 1545, dimostra che aveva ben nove figli "con di più la speranza di farne altri" e che per tale motivo l'atto papale lo esentava dal pagare le tasse.
La data di morte, del tutto incerta, secondo alcune fonti è da collocare nel 1595.
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