SPECCHI, Alessandro
– Nacque a Roma il 9 giugno 1666, da Antonio Maria e da Lucrezia Apollonia Frassinelli (Giuggioli, 1980, p. 422).
Incluso da Lione Pascoli (Vite de’ scultori ed architetti moderni, II, Roma 1736, p. 549) tra gli allievi di Carlo Fontana, ne fu il principale collaboratore per le incisioni dei volumi di architettura pubblicati tra il 1692 e il 1697, a partire dal Tempio Vaticano dato alle stampe nel 1694 ma in gran parte compiuto già nel 1687 (Hager, 2003). In questo stesso anno una veduta interna della basilica vaticana da lui «misurata, disegnata e intagliata» ne inaugurò la feconda attività di disegnatore e incisore per gli editori De Rossi, per i quali curò il Quarto libro del nuovo teatro delli palazzi di Roma (1699) e, soprattutto, il primo volume dello Studio d’architettura civile (1702), un vasto repertorio di porte, finestre e altri particolari di edifici di Roma moderna, che lo qualificò come un profondo conoscitore delle opere di Michelangelo e dei maestri del Seicento (Antinori, 2013).
Grazie a queste imprese editoriali, all’età di trentasei anni Specchi ricevette il primo riconoscimento dal mondo delle arti con l’ammissione nella congregazione dei Virtuosi al Pantheon, avvenuta il 12 febbraio 1702 (Bonaccorso - Manfredi, 1998). In quell’anno risiedeva nei pressi di piazza Montanara, ai piedi del Campidoglio, con la moglie Anna Novelli, sposata nel 1688, e i figli Apollonia, Agnese, Maria e l’ultimogenito, battezzato quattro mesi prima con il nome del suo patrono monsignor Niccolò del Giudice (Roma, Archivio storico del Vicariato, S. Nicola in Arcione, Battesimi, voll. VI-VII, 1676-1720).
Fu proprio questo raffinato amatore e collezionista d’arte, nipote del potente cardinale filospagnolo Francesco del Giudice e consigliere artistico di papa Clemente XI Albani, a favorire la scalata di Specchi ai vertici della gerarchia degli architetti romani, di pari passo con la propria ascesa alle più alte cariche della Curia. Ciò a partire dal gennaio del 1702, quando, appena nominato presidente del Tribunale delle strade, lo assunse come architetto sottomaestro (Manfredi, 1991b, p. 445), offrendogli la prima grande opportunità professionale: la progettazione e la realizzazione del nuovo porto di Ripetta, interamente gestite dal prelato tra il 1703 e il 1705 nell’ambito della magistratura delle strade, come enfaticamente riportato da Agostino Maria Taja nel libretto celebrativo dell’opera (1705; Marder, 1980a; Kieven, 2007). Se le «belle centinature» che, secondo Taja (1705), caratterizzavano già il «distinto disegno in carta» (p. 41) predisposto da Del Giudice ascrivevano a quest’ultimo l’idea iniziale del progetto, probabilmente ispirata allo spettacolare sistema di rampe e terrazze concepito da Gian Lorenzo Bernini per il pendio della Trinità dei Monti, l’esito qualitativo della dinamica ondulazione concava e convessa dell’impianto digradante verso il Tevere era interamente attribuito a Specchi e ai «buoni principj, da lui già appresi in ottima scuola» (ibid.), senza alcun accenno al suo maestro. Ma già nel 1707, descrivendo il porto in Roma sacra e moderna Francesco Posterla ne indicava l’autore come «allievo del celebre cavalier Carlo Fontana, sotto la cui direzione sà operar cose grandi» (p. 462) , collocandone implicitamente l’esordio nella sfera del maestro ticinese.
In effetti, oltre al porto di Ripetta e al poco documentato restauro del palazzo Verospi (1704), l’inizio dell’attività di Specchi come architetto è riconducibile tanto alla protezione di Del Giudice quanto all’accredito professionale di Fontana (di cui fu collaboratore, insieme a Filippo Barigioni, per la realizzazione della cappella Albani nella chiesa di S. Sebastiano fuori le Mura, compiuta dal 1706 al 1712 sotto la sovrintendenza di Orazio Albani, fratello del papa, e di Del Giudice: Hager, 1976). Inoltre lo stesso Del Giudice gli conferì anche l’incarico di architetto dell’Annona, dopo essere transitato alla guida di questa magistratura da quella delle strade (Manfredi, 1991b, p. 446).
All’influenza di Del Giudice e Fontana sono riconducibili tre significative opere commissionate a Specchi nel 1705: il palazzetto in piazza Sciarra (oggi scomparso), ultimato nel 1706 per il principe Francesco Colonna del ramo di Carbognano di quel casato filospagnolo di cui sarebbe diventato architetto (Manfredi, 2003, pp. 95-97); la prima porzione del palazzo in via dei Baullari, compiuta nel 1708 per conto di Alessandro Pighini a seguito di istanze di demolizione delle pericolanti preesistenze avanzate dal Tribunale delle strade fin dal 1703 (Repetto, 1986; Lodico, 1995), e il Collegio degli Scolopi a Urbino, la cui costruzione, portata avanti lentamente fino al 1721, rientrava tra le iniziative edilizie patrocinate da Clemente XI nella sua città natale con la regìa di Carlo Fontana e del figlio Francesco (Tabarrini, 2001).
A fronte delle rigide ascendenze neocinquecentesche del porticato e del cortile interno dell’opera urbinate, i prospetti delle due opere romane denotavano una disinvolta rivisitazione di modelli decorativi seicenteschi nell’ambito di inedite ripartizioni ritmiche degli assi verticali, riscontrabili anche nell’edificio della Dogana integrato al porto di Ripetta tra il 1704 e il 1706.
Queste prime prove di autonomia stilistica coincisero con una progressiva autonomia professionale manifestata dall’acquisizione di commesse di crescente importanza: dalla ristrutturazione della chiesa di S. Giovanni Battista a Poggio Mirteto (progettata nel 1706 e parzialmente attuata in estrema economia entro il 1720: Primarosa, 2012), all’ampliamento del monastero delle Orsoline in via dei Greci (iniziato nel 1708 e completato nel 1720: Manfredi, 1991b, p. 446), al progetto in due versioni della chiesa e del convento della congregazione delle Oblate Convittrici del Bambin Gesù in via Urbana (elaborato tra il 1708 e il 1710, e parzialmente attuato per il solo convento tra il 1712 e il 1716: Garms, 1979).
A confronto della sobrietà del nuovo corpo di fabbrica delle Orsoline, le due varianti per il complesso del Bambin Gesù – decisamente ridondanti rispetto alle potenzialità della committenza – richiamavano i piani autopromozionali del maestro Fontana. In questo senso, entrambi i progetti, pur differenziati nel grado di ornamentazione, mostravano la grande padronanza dell’autore nel rielaborare il repertorio decorativo del Seicento all’interno di schemi compositivi consolidati, manifesta soprattutto nella transizione del prospetto della chiesa a pianta centrale da un doppio ordine di colonne libere ad andamento concavo-convesso, a un ordine gigante rettilineo in forma di pronao con timpano triangolare. Così, quando, dopo la morte di Francesco Fontana (3 luglio 1708), Specchi ne rilevò la carica di «revisore e misuratore della Fabbrica di S. Pietro» alle dirette dipendenze del padre (Principato, 1990, pp. 103 s.), egli si poneva come un autorevole candidato ad assumerne l’eredità artistica e professionale. In questo senso possono essere interpretati la sua presenza a Urbino nel 1709 per il restauro dei poggioli del palazzo ducale (Tabarrini, 2001, p. 324) e la progettazione degli altari del Sacramento e della Concezione nel duomo (compiuti nel 1711 e scomparsi a seguito del terremoto del 1789: Debenedetti, 2001), e nel 1710 addirittura il restauro del Pantheon affidatogli da Del Giudice non appena fu chiamato dal papa ad affiancare il fratello di lui Orazio come sovrintendente.
L’impegno di Specchi nel Pantheon consistette nella pulitura e nella reintegrazione della superficie marmorea tra il pavimento e la prima trabeazione – già oggetto di un parziale intervento di Fontana negli anni Sessanta del Seicento – nel contesto di un più vasto piano di riqualificazione per il quale nel 1711 progettò il rifacimento dell’altare maggiore nel nicchione centrale, delle sei cappelle nelle nicchie perimetrali (compresa quella di S. Giuseppe di Terrasanta disegnata per i confratelli Virtuosi) e delle edicole a esse interposte (Pasquali, 1996, pp. 37-67; Manfredi, 2004).
Il ruolo di deputato alla rinascita del celebre monumento ne amplificò la fama di architetto, «adoperato dal pontefice nelle cose più difficili» e capace di resuscitare l’architettura romana «dopo la morte del Bernino a gran segno decaduta», quale fu presentato nel 1711 con toni panegirici in due articoli del Giornale dei letterati (t. V, pp. 338-342, t. VII, pp. 447-456; citazioni: t. V, p. 342) riguardanti il secondo volume dello Studio d’architettura civile dedicato a cappelle, altari e monumenti sepolcrali romani, di cui egli aveva eseguito pressoché tutti i disegni.
Se tali riconoscimenti pubblici coincisero con la sua aggregazione all’Accademia di S. Luca, deliberata il 25 maggio 1711, la dilazione della presa di possesso fino al 9 agosto 1716 ne denotava il distacco dal sistema corporativo, poi sfociato nella contestazione dei nuovi statuti protezionistici che ne causò la sospensione e la temporanea espulsione tra il luglio e il dicembre del 1719 (Principato, 1990, p. 117).
D’altra parte, la posizione professionale di Specchi era garantita dall’appoggio incondizionato di Del Giudice, che alla morte di Orazio Albani era diventato il primo interlocutore di Clemente XI in materia artistica, oltre che responsabile unico del restauro del Pantheon. Contestualmente, il 3 febbraio 1713 Specchi assunse anche la carica di architetto del popolo romano, e di conseguenza la cura di tutte le antichità di Roma (compreso il Pantheon) sottoposte alla giurisdizione della Camera capitolina, cui diede un rinnovato impulso (Pasquali, 1991).
Dopo la morte di Fontana, nel febbraio del 1714, la conquista del primato professionale a Roma da parte di Specchi fu sancita dall’ulteriore carica di architetto dei Sacri palazzi, procuratagli nel 1715 da Del Giudice non appena nominato prefetto del Palazzo apostolico, ovvero maggiordomo del papa. Ma tale primato doveva apparire evidente già nel 1713, quando un personaggio autorevole come monsignor Francesco Bianchini, scienziato e presidente delle antichità di Roma, lo indicò per primo tra i possibili autori del progetto della facciata del duomo nuovo di Brescia (Volta, 1987, p. 119), e quando, soprattutto, Livio de Carolis, figlio di un ricco mercante di granaglie (poi divenuto marchese di Prossedi), gli affidò la più importante commessa privata del tempo: il nuovo grande palazzo di famiglia in via del Corso (Giuggioli, 1980; Bonardi, 2012).
Il rilevante insediamento urbano dell’edificio e gli ingenti mezzi impegnati da De Carolis (per il quale nel 1710-11 l’architetto aveva restaurato la chiesa di S. Maria della Neve a Frosinone e realizzato l’antistante fontana) consentirono a Specchi di misurarsi al massimo grado con il tema della facciata del palazzo nobiliare alla romana più volte esplorato dal maestro Fontana sulle orme di Bernini. In particolare egli si rapportò a quella del vicino palazzo Bigazzini in piazza Venezia, riproponendone il portale loggiato triassiale e variandone lo schema orizzontale mediante una tripartizione verticale segnata da lesene giganti di chiara ascendenza berniniana, ribadita anche all’interno, nella scala ovale mutuata da quella di palazzo Barberini.
Il cantiere del palazzo De Carolis, concluso in due fasi nel 1720 e nel 1728, assorbì gran parte del tempo dedicato da Specchi all’attività edilizia privata a Roma, probabilmente comprendente anche il completamento della facciata della chiesa di S. Anna dei Palafrenieri (l’ampliamento del palazzo Albani alle Quattro Fontane dopo il 1721, generalmente attribuitogli insieme a Barigioni, è attendibilmente riferito solo a quest’ultimo nella Roma ampliata e renovata edita da Gregorio Roisecco nel 1725). Mentre una consistente attività nel campo dell’architettura effimera riguardò principalmente la realizzazione delle macchine della Chinea per i connestabili Colonna: dal 1722 al 1727 due volte all’anno alternò edicole classicheggianti e fondali naturalistici davanti al palazzo di famiglia in piazza dei Ss. Apostoli (Gori Sassoli, 1994).
In ognuno dei suoi impieghi pubblici Specchi ebbe modo di confrontarsi con tematiche progettuali di ampio respiro, sempre sostenuto da Del Giudice nel ruolo chiave di maggiordomo di papa Clemente XI e dei suoi successori Innocenzo XIII e Benedetto XIII, ruolo mantenuto di fatto anche quando quest’ultimo lo elevò al cardinalato nel 1725, dopo la morte dello zio Francesco.
Come architetto del popolo romano tra il 1719 e il 1722 Specchi curò la sistemazione del fondale del cortile di palazzo dei Conservatori (Benedetti, 2003), instaurando un vibrante contrappunto visuale con l’antistante preesistenza michelangiolesca, esaltato dall’arco centrale incorniciante il gruppo statuario della Roma trionfante, che replicò anche in forma effimera nel 1721 con l’arco trionfale per il possesso di Innocenzo XIII interposto tra la piazza e la cordonata del Campidoglio. Nell’ambito della stessa carica, tra il 1719 e il 1724 realizzò finalmente l’altare maggiore e la tribuna del Pantheon in una versione aderente all’originario partito dell’edificio assai più di quella a baldacchino visibile in un disegno preliminare connotato da una ricercata semplificazione del repertorio decorativo contemporaneo, che è riscontrabile anche nel progetto elaborato nel 1714-15 per la cappella di S. Giuseppe di Terrasanta al Pantheon, rimasto irrealizzato (Marder, 1980b; Pasquali, 1996, pp. 58-62; Manfredi, 2004).
Come architetto misuratore della Fabbrica di S. Pietro nel 1720 Specchi, su richiesta del segretario monsignor Ludovico Sergardi, affrontò il tema del terzo braccio del colonnato della piazza, proponendo un modello ligneo molto fedele all’opera di Bernini (Turriziani, 2016).
Come architetto dei Sacri palazzi, tra il 1721 e il 1724 proseguì la Manica Lunga berniniana nel complesso del Quirinale e la costruzione delle vicine scuderie pontificie lasciate interrotte da Carlo Fontana, riconfigurandone simmetricamente il progetto con due brevi avancorpi laterali e rampe a tenaglia centrali (Marino, 1990).
Ancora una volta il ricorso a scenografiche forme curvilinee costituì per Specchi la soluzione a un complesso problema urbano, come era avvenuto quasi venti anni prima per l’approdo di Ripetta e più recentemente per il sito scosceso della Trinità dei Monti, per il quale, con il patrono Del Giudice, nel 1717 aveva concepito una fluida sequenza di terrazze e rampe mistilinee. Per quanto il suo progetto fosse il più coerente con le grandiose idee di Bernini tra quelli sottoposti a Clemente XI, sei anni dopo, al termine di un’aspra contesa diplomatica circa la giurisdizione sul sito tra la Francia e il Papato, Specchi dovette soccombere all’opposizione dell’incaricato d’affari francese Pierre Guérin de Tencin che indusse Innocenzo XIII a preferire il concorrente Francesco De Sanctis (Marder, 1984; Kieven, 2007).
Il fatto che il progetto definitivo di De Sanctis avesse dovuto comunque recepire buona parte del suo, non ripagò Specchi per questo primo grave insuccesso professionale e per le pesanti accuse di incompetenza rivoltegli da Tencin, le quali avrebbero avuto un eclatante seguito il 1° maggio 1724, quando crollò l’appena compiuto nuovo portico della basilica di S. Paolo, la sua unica grande commessa religiosa romana, di cui non rimangono testimonianze, né grafiche né materiali, nell’opera ricostruita l’anno dopo da Antonio Canevari.
Per quanto Specchi, sull’esempio del maestro Fontana, avesse saputo consolidare la sua immagine di propagatore e continuatore della cultura architettonica dei grandi maestri del Seicento, e di Bernini in particolare, mediante una sapiente combinazione di innovazioni formali e citazioni testuali, l’incidente del portico di S. Paolo minò la sua credibilità di architetto e con essa il suo stato di salute, che si aggravò progressivamente fino alla morte, sopraggiunta il 16 novembre 1729.
Secondo le sue ultime volontà, dettate il 7 dicembre 1727 (Giuggioli, 1980, pp. 430 s.; Principato, 1990, pp. 117 s.), Specchi fu sepolto nella chiesa di S. Francesco alle Stimmate, con la veste dell’omonima confraternita, di cui era membro da più di vent’anni. Con un atto dell’aprile 1728 aveva ceduto a Filippo Raguzzini gran parte delle sue cariche pubbliche per l’aiuto fornitogli durante la malattia, mentre pochi incarichi privati furono rilevati dai suoi tre collaboratori: Matteo Brioni e Galeazzo Tursi, che nel 1711 e nel 1718 avevano sposato le figlie Apollonia e Agnese, e soprattutto il fratello minore Michelangelo (Manfredi, 1991a-d), che dal 1716 aveva preso ad abitare con sé nell’appartamento al secondo piano della casa Zuccaroni in via del Corso, davanti a palazzo Mancini, dove egli viveva dal 1712 con la moglie e i figli (tra i quali la neonata Maria Francesca, ma non più Niccolò, morto nel 1709: Giuggioli, 1980, p. 431).
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