FRANZONI (Fransone, Fransoni, Franzone), Agostino
Nacque a Genova nel 1573 da Tommaso di Gaspare e da Maria Soffia di Agostino.
I genitori appartenevano a famiglie "populares" influenti, dette, dopo la riforma del 1528, della nobiltà "nuova". Originaria, secondo i genealogisti, della podesteria di Rapallo, nella Riviera di Levante, la famiglia era a Genova già nel Trecento. La famiglia, di solido ceppo popolare, sembra aver conosciuto un'ulteriore ascesa nel Cinquecento, facendo fortuna nel commercio della seta e stringendo legami di parentela con altri prosperi imprenditori del ramo. Tommaso fu un esponente radicale della fazione "nuova" nella guerra civile che la contrappose ai nobili "vecchi" nel 1575-76. Un velenoso libello del 1623 ostile ai "nuovi" pretendeva che il padre di Tommaso, o forse suo nonno, fosse stato tessitore e poi "bravo", e "processato per luterano". Anche se fondati, questi precedenti non ostacolarono la carriera politica di Tommaso, senatore nel 1596-98 e nel 1610-11. E in abito senatorio, secondo Corazzini, Tommaso si sarebbe fatto ritrarre da A. Van Dyck in una tela che per altro non conosciamo. Il confronto dei dati fiscali di fine Cinquecento con quelli degli anni Venti del Seicento mostra una fortuna familiare in forte crescita, confermata dalle iniziative immobiliari di Tommaso, il quale nel 1603 aveva già acquistato l'area presso via Luccoli dove si trovava il palazzo di famiglia. Lo stesso Tommaso fece costruire una villa in Albaro, una delle villeggiature suburbane preferite dal patriziato.
Dalla moglie, sposata nel 1562 e figlia dello spettabile Agostino Soffia, Tommaso ebbe tre maschi e una femmina. L'ascesa politica della casata è misurabile dagli imparentamenti dei figli di Tommaso: Anfrano sposò in prime nozze una Fieschi, e in seconde una Grimaldi Cebà, entrambe di illustri casate "vecchie". Il F. sposò invece Camilla Monsia di Bartolomeo, esponente di un'influente casata "nuova" e a più riprese senatore e procuratore.
A differenza di Anfrano e dei suoi figli, che percorsero brillanti carriere politiche ed ecclesiastiche (Giacomo di Anfrano divenne cardinale) e tramandarono il lignaggio, il F. ebbe un ruolo pubblico di assai minor rilievo e assolutamente tardivo. Fu infatti imbussolato nel Seminario (da dove venivano estratti i membri dei Serenissimi Collegi, il vertice del governo della Repubblica) soltanto nel 1638, e sedette come senatore una sola volta, nel biennio dal 1° luglio 1652 al 30 giugno 1654. Fu dei Trenta elettori dei Consigli nel 1633, 1637, 1650 e 1657.
Nel 1637-38, come membro della magistratura dei Censori (preposta, tra l'altro, alle controversie tra le arti), si occupò del conflitto tra mercanti e maestri cartai di Voltri, il centro dell'industria della carta nel Genovesato. Dopo tre mesi di indagini svolte sul posto, il F. presentò ai Censori l'11 genn. 1638 una proposta di riforma tradotta all'inizio di aprile nei nuovi "Capitoli e ordini concernenti all'arte de paperari", che disciplinarono il settore per oltre un secolo, a vantaggio dei mercanti e a scapito dei maestri, che protestarono vivacemente contro la pubblicazione dei capitoli. Nel 1633 l'ambasciatore spagnolo F. de Melo classificò il F. come un "mal afecto a Su Magestad", cioè un antispagnolo, come quasi tutti gli intellettuali patrizi dell'epoca, coerentemente con il suo interesse per il rilancio della marineria genovese, che negli anni 1630-50 ebbe un netto significato antispagnolo.
Probabilmente il F. restò piuttosto appartato dalla scena pubblica perché impegnato in un'intensa attività di ricerca erudita, di carattere genealogico e storico-politico. (Senza trascurare gli occasionali contributi poetici, come un Sonetto, e madrigale in lode del poema dello Stato rustico di Gio. Vincenzo Imperiale, Genova 1636, per i quali l'abate olivetano S. Lancellotti, nel dedicare al F. il suo Chi l'indovina è savio, non scarseggiò di elogi). L'abate Michele Giustiniani lo definì "ornato di sufficiente letteratura, ma superiore a molti nelle notitie spettanti alle Famiglie della Liguria". Più entusiasta, Raffaele Soprani scrisse che il F. "superò tutti nel brio, et energia del favellare, e si dimostrò sempre pronto a discorrere sopra di qualsivoglia materia". Come il poco più anziano Giulio Pallavicino, del quale poté utilizzare gli appunti, e il quasi coetaneo Federico Federici, il F. si dedicò all'antiquaria finalizzata al dibattito sull'origine delle casate componenti il patriziato cittadino. Secondo l'abate Giustiniani egli si era proposto di stampare i risultati delle sue indagini, ma ne fu distolto dal nipote cardinale Giacomo "per non recar disturbo ad alcuni, che si pretendevano in ciò pregiudicati". Chi fossero costoro non sappiamo. Nel 1636 il F. diede alle stampe, a Genova, soltanto la Nobiltà di Genova, raccolta in folio degli stemmi della casate patrizie raggruppati attorno a quelli dei ventotto "alberghi" (consorterie) della riforma del 1528.
Il grosso del lavoro antiquario del F. restò dunque manoscritto. Esso comprendeva una Venetia, cioè sua origine, vescovi, patriarchi et nobiltà di quella Republica (1638), conservata nella Biblioteca Franzoniana di Genova e purtroppo perduta durante l'ultima guerra, e soprattutto l'Aristo, dialogo del governo antico della città di Genova e della nobiltà di essa, in dodici "giornate", anch'esso per la maggior parte apparentemente perduto. Stando al Grillo, che ne conosceva una copia, oggi scomparsa, comprendente sette giornate, il lavoro fu steso tra il 1623 e il 1641, a intervalli irregolari: la prima giornata nel 1623, la seconda nel 1629, la quinta, sesta e settima nel 1639, le ultime cinque nel 1641. Si trattava pertanto di un'opera aperta, avviata con un dialogo sulle origini della nobiltà che contestava le tesi espresse a metà Cinquecento da Oberto Foglietta sulla natura originariamente aperta del ceto di governo genovese. Per il suo lavoro risulta che il F. poté utilizzare le ricerche di un altro patrizio antiquario dell'epoca, Giulio Pallavicino: ed è significativo che personaggi provenienti da settori diversi, e fino alla generazione precedente contrapposti, del patriziato si trovassero allora sulle stesse posizioni.
La diffusione della prima giornata coincise con un momento alto del dibattito politico genovese, bloccato dall'improvvisa aggressione franco-sabauda del 1625, che vide apparire, a breve distanza di tempo, la conclusione della grande stesura dei Ricordi di Andrea Spinola (la più importante opera politica del primo Seicento genovese, rimasta manoscritta); un dialogo anonimo che riprendeva il dibattito cinquecentesco tra nobili "vecchi" e nobili "nuovi" attaccando questi ultimi; la pubblicazione postuma delle lettere di Ansaldo Cebà. Non a caso il F. riprese la penna dopo la cessazione delle ostilità, la congiura di Vachero, la quiebra spagnola del 1627, e allargò lo spettro di argomenti del dialogo a una discussione più generale sui problemi della Repubblica. Nella seconda giornata toccò la questione dell'approvvigionamento annonario (da risolvere con l'allestimento di grandi depositi statali permanenti di grani), della costruzione delle nuove mura, e dell'ordine pubblico (sostenendo un rigoroso controllo poliziesco della città). In successive giornate tornò sulla storia delle grandi casate del patriziato cittadino: una sui De Fornari, casata della fazione popolare, è andata perduta, mentre si conserva quella dedicata ai Doria, una tra le principali casate della fazione nobile. In questo caso il F. contestava le tesi del Sansovino, retrodatando la nobiltà della famiglia Doria rispetto agli inizi del XII secolo.
In definitiva, arretrando nel tempo l'antichità e l'omogeneità del ceto dirigente genovese, e avversando la visione "nominalistica" di Oberto Foglietta, il F. si mostrava un acuto interprete dell'"unione" oligarchica nell'epoca degli ideologi "repubblichisti", che all'avversione per la Spagna e alla subordinazione di Genova alla Spagna abbinavano una più o meno aperta adesione all'ideale veneziano di repubblica (e da questo punto di vista è importante l'interesse del F. per l'antiquaria veneziana). Non risulta però che la produzione manoscritta del F. abbia suscitato una risposta; e resta da spiegare la diseguale diffusione delle diverse giornate dell'Aristo (anche se si intuisce il maggiore interesse che la discussione sull'antichità della nobiltà cittadina della prima giornata poteva avere rispetto agli interventi più specifici delle giornate successive).
Il F. morì, presumibilmente a Genova, il 23 luglio 1658, e fu sepolto nel coro della chiesa, oggi distrutta, di S. Teodoro a Fassolo (dove in seguito venne seppellita la figlia Maria Brigida, sua unica erede). Gli fu eretta una statua nella cappella di famiglia nella chiesa di S. Carlo.
Delle molte copie parziali delle opere manoscritte del F. si segnalano soltanto: Genova, Archivio storico del Comune, mss. 348, 359, 859; Mss. Brignole Sale, 106.D.13, 107.A.7, 108.A.13; Archivio di Stato di Genova, ms. 437; Genova, Biblioteca civica Berio, Mss. rari I.1.34; Ibid., Biblioteca Franzoniana, ms. B.42.
Fonti e Bibl.: Genova, Archivio storico del Comune, Censori, Atti, 103; ms. 494, cc. 103v-104; 653 s.; Notai antichi, 3424, 4572, 5455, 6944. Ma la ricerca nella sterminata documentazione notarile genovese resta da fare. Ibid., Biblioteca civica Berio, Mss. rari, VIII.2.28, pp. 436 s.; IX.3.9; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, I, Roma 1667, pp. 12 s.; R. Soprani, Li scrittori della Liguria, e particolarmente della Marittima, Genova 1667, pp. 4 s.; L. Grillo, A. Fransone, in Giornale degli studiosi di lettere, scienze, arti e mestieri, II (1870), pp. 249-251; P.A. Sbertoli, Domenico Giuseppe Maria Franzone ed i figli dello stesso, ibid., III (1871), pp. 50-54; G.O. Corazzini, Memorie storiche della famiglia Fransoni, Firenze 1873, ad nomen; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Atti della Società ligure di storia patria, LXIII (1934), p. 13; M. Mombelli Castracane, La Confraternita di S. Giovanni Battista de' Genovesi in Roma, Firenze 1971, p. 214; G. Doria - R. Savelli, "Cittadini di governo" a Genova tra Cinque e Seicento, in Materiali per una storia della cultura giuridica, X (1980), 2, pp. 277-355; R. Savelli, La Repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano 1981, p. 217; A.M. Salone, Uomini di cultura tra il '500 e il '600, in La Storia dei Genovesi…, Genova 1985, pp. 94-98; M. Calegari, La manifattura genovese della carta (secc. XVI-XVIII), Genova 1986, pp. 86-97; C. Bitossi, Il governo dei magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova 1990, ad Indicem; La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova 1992, I, pp. 31, 33 s., 35; II, p. 110; G. Doria, Nobiltà e investimenti a Genova in età moderna, Genova 1994, pp. 11-89; G. Ruffini, Sotto il segno del pavone. Annali di Giuseppe Pavoni e dei suoi eredi, 1598-1642, Milano 1994, pp. 179, 277; R. Ferrante, La difesa della legalità. I sindacatori della Repubblica di Genova, Torino 1995, p. 26.