CIERA, Agostino
Nacque dal banchiere veneziano Bernardo e da Elisabetta di Geri Nicolosi, probabilmente nel primo decennio del sec. XV. Giunto a maturità il C. svolse, autonomamente rispetto al padre, un'attività mercantile notevole, trattando affari di rilevante consistenza, come risulta da una transazione commerciale del 1454, in cui appare impegnato per 4.200 ducati. A testimoniare la sua disponibilità di-capitale e l'entità dei suoi investimenti vale l'acquisto, effettuato nel giugno 1453, di trenta botteghe sitea Padova In piazza delle Erbe, di proprietà dello Stato veneziano, affittate a drappieri e pellicciai, per le quali pagò una somma di 27.475 lire di piccoli e dalle quali ricavava un reddito annuo di 1.641 lire di piccoli. Con il padre invece il C. dovette partecipare alla gestione del banco, sino probabilmeùte a sostituirlo, in maniera quasi totale, nel 1453, quando Bernardo era ormai vecchio e malato, per succedergli, infine, alla morte. Dal 1453 al 1462 almeno, ebbe come socio nell'esercizio dei banco Giacomo Corner.
Come il padre, il C. concesse attraverso il banco cospicui prestiti allo Stato. Nell'ottobre 1463 anticipò, a titolo personale, 3.000 ducati; nel settembre 1465 ne prestò altri 5.000 che vennero usati per assoldare un contingente di 500 fanti da inviare in Morea, dove la Repubblica era impegnata nella guerra contro i Turchi. Alcuni giorni dopo, all'inizio di ottobre, il C. "misit... claves capse ad serenissimum principem" e concesse un nuovo mutuo per la somma di 4.000 ducati. Infine, nel luglio 1466, fornì 3.000 ducati, con cui furqno pagati gli equipaggi di alcune galere.
Il C. dunque, sia per la sua attività sia per il prestigio acquistato dalla sua famiglia, aveva in Venezia, anche socialmente, una posizione di rilievo, tanto da poter addirittura nutrire l'ambizione di essere promosso al patriziato. A questo proposito i cronisti, trovandone parziale conferma in una deliberazione del Senato dove il nome del C. non è esplicitamente menzionato, riferiscono che l'imperatore Federico III, durante il suo soggiorno veneziano, nel maggio 1452, intervenne a favore del C., chiedendo per lui l'ammissione in Maggior Consiglio. La richiesta fu elegantemente, ma recisamente, respinta. I suoi meriti evidentemente non erano sufficienti a procurargli questo privilegio.
In effetti il modo con cui il C. condusse i suoi affari non fu dei più limpidi e onesti, anzi nella gestione del banco commise irregolarità ed illeciti così gravi che nel 1468 fu obbligato a chiuderlo.
Nel dicembre di quell'anno il C. venne infatti chiamato.in giudizio sotto l'accusa di aver indebitamente accreditato 300 ducati a favore di Bartolomeo Lion, suo genero, dal conto di Antonio de Vico. Si aggiungeva poi l'accusa, altrettanto grave, di aver sottratto, nel 1465, dall'ufficio dei Sopraconsoli un titolo cartolare, appartenente a Bartolomeo Milioto, attestante un debito di 590 ducati contratto dal C. nei confronti di Giovanni Tron per l'acquisto di alcune case, titolo originariamente intestato ad Antonio de Vico, creditore del Tron, e girato al Milioto. Ricoosciutane la colpevolezza, al C., "cum elus dicta", fu imposto di chiudere il banco, con l'obbligo di liquidare entro marzo tutti i suoi clienti e di tenere i libri contabili a disposizione di chiunque fosse stato o fosse in affari con il banco; doveva inoltre cancellare la partita illecitamente accreditata al Lion e restituire al Milioto la cartolina di pagamento, aggiungendo un risarcimento di 200 ducati. Infine gli veniva comminata una multa di 300 ducati, da versare agli Avogadori, ed era condannato a due mesi di carcere, da. scontare una volta liquidato il banco.
Nell'agosto del '71 il C. non aveva anèora liquidato tutti i suoi clienti e, poiché fino a quel momento molti non avevano potuto vedere "le sue raxon", gli veniva ordinato di depositare presso i Provveditori di Comune tutti i registri contabili esistenti "dal hora ch'el dicto bancho have principio e nome de cha Ciera". Secondo latradizione, solo nel 1473 il C. riuscì a saldare ogni debito e fu cosa assai notevole, nella sua eccezionalità, che gli permise di riacquistare la stima perduta.
Con il processo era iniziato infatti per il C. un periodo estremamente critico, contrassegnato da una serie di procedimenti che sembrano perseguire l'intento di mettere in luce gli aspetti meno corretti di tutta la sua attività e costituiscono perciò il segno più evidente del definitivo declino della sua fortuna. Già nel 1467 in Quarantia si era stabilito di annullare le lettere ducali con cui nel 1460, "ex mala informatione data dominio nostro", erano stati appoggiati i diritti, poi risultati inesistenti, vantati dal C. su una bottega di tappezziere sita a Padova, appartenente a Giacomo da Pola, che probabilmente era stata inglobata nelle trenta acquistate nel '53. Nel marzo 1469 fuannullata anche la lettera ducale inviata al papa nel settembre 1459 in favore dei C., a cui era stata imputata la mancata esecuzione di alcune clausole del testamento di Giacomo Ciera, già vescovo di Corone, riguardanti appunto quell'episcopato. La Repubblica denunciò esplicitamente la malafede del C., riconoscendo appieno i diritti del vescovo di Corone. In quello stesso anno, in giugno, un nuovo procedimento fu aperto contro di lui dagli Avogadori de Comun per una frode commessa ai danni dello Stato nel 1460, quando aveva in appalto il dazio del sale di Terraferma (aveva fatto ingrandire il moggetto di misurazione del sale di Chioggia). Tuttavia in Senato fu deciso di non procedere e il C., phe durante l'istruttoria era stato trattenuto in carcere, fu rilasciato.
Il processo del '68 e quelli successivi del '69 non troncarono tuttavia dei tutto né immediatamente l'attività commerciale del C. (nell'ottobre 1471 Pietro da Lecce gli era creditore per 100 ducati, che gli avrebbe però pagato solo nel 1474), né impedirono la sua ascesa sociale, anche se ben diversa fu da quel momento la sfera dei, suoi interessi. Lasciata, infatti, Venezia, il C. si trasferì a Roma, chiamato, dicono i genealogisti, dallo stesso papa Sisto IV, che era stato suo maestro a Padova. A Roma fu nominato dal papa protonotariO apostolico, lasciando, come è scritto nel suo epitaffio, gli affari "in quibus fucrat cum, laude versatus", spinto dal desiderio di un'esistenza più quieta e perfetta. La tradizione vuole che egli tornasse a Venezia come legato papale, ma, se anche fu così, fu solo per un breve soggiorno.
Il C. morì a Roma il 7 giugno 1476, nel palazzo di S. Crisogono, dove risiedeva, e fu sepolto nella stessa chiesa.
Il testamento, nuncupativo, dimostra come la sua ricchezza fosse ragguardevole anche dopo il tracollo del '68. Destinava 440 ducati per Iasciti a conventi e persone (ma i due legati più Cospicui, 200 ducati ciascuno, si sarebbero dovuti pagare solo entro dieci anni "propter malam conditionem existentem in civitate Venetiarum"); possedeva beni mobili e immobili a Venezia e a Padova, 25.000 ducati investiti nella Camera degli imprestiti. gioielli, oggetti d'argento e denaro depositati in banchi romani, vesti, libri, mobilia nella sua dimora romana. Ma anche dal testamento si rivela la scarsa rettitudine del C. che confessa di non aver rispettato la clausola del testamento paterno che prevedeva la designazione di un mansionario presso il monastero di S. Andrea del Lido.
Dalla moglie Francesca Foscarini il C. aveva avuto un figlio, Pietro, e numerose figlie, alcune entrate in convento, altre accasate in nobili famiglie veneziane.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Archivio notarile, Testamenti, busta 1195, n.10; busta 1230, n. 171; Ibid., Archivio Grimani-Barbarigo, busta 42, reg. 4, f. 212; Ibid., Senato, Terra, reg. 3, f. 120v; reg. 5, ff. 56v, 138, 139, 165; reg. 6, ff. 45, 139; Ibid., Secreta, reg. 19, f. 139v; Ibid., Collegio, Notatorio, reg. 10, f. 154v; reg. 11, f. 47v; Ibid., Giudici di Petizion, Sentenze a giustizia, reg. 133, f. 15; reg. 158, f. 30v; Ibid., Avogaria de Comun, Raspe, reg. 3652, I, f. 58; reg. 3653, I, ff. 2v, 6v, 21v; Venezia, Civico Museo Correr, cod. Gradenigo 83, II: Corona seconda della veneta Repubblica..., ff.126v-127, 129rv, 130v; Ibid., mss. P. D., C. 911, 1, ff. 1, 94; C. 912, 1, ff. 87, 142; C. 2213, 18; Venezia, Bibl. naz. Marc., cod. Ital. VII, 90 (= 8029): Arbori e croniche delli cittad. Veneti, f.28v; Ibid., cod. Ital. VII, 351 (= 8385): A. Zeno, Appunti geneal. e biogr. di fam. venete, f. 24v; Ibid., cod. Ital. VII, 1795 (= 7679): Notizie della famiglia Ciera, p. 17; Inscriptiones Venetae infimi aevi Romae extantes, a cura di P. A. Galletti, Roma 1757, p. XLVIII n. 1; Docum. per servire alla storia de' banchi veneziani, a cura di F. Ferrara, in Arch. ven., I(1871), pp. 129 n. 43, 361 s. nn. 160 s.; I libri commemor. della Repubblica di Venezia. Regesti, V, a cura di R. Predelli, Venezia 1901, XV, nn. 8-11; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Venez., IV, Venezia 1834, pp. 224 s., 688; F. Ferrara, Gli antichi banchi di Venezia, Palermo 1970, pp. 30-33.